CHE FARE DA GRANDE?

La costruzione del nuovo bar.
1976, San Cassiano di Livenza. Le case coloniche cominciano a cedere posto alle costruzioni moderne. Cantiere per la cotruzione del primo “vero bar” del paese, Il “progresso” arriva tardi.

 

Quando presi in mano per la prima volta una macchina fotografica, nel 1976, non avrei immaginato di trovarmi oggi a iniziare scrivere questa sorta di resoconto; a distanza di oltre quarantanni.

Nella piccola provincia italiana, le novità arrivano dopo, con la lentezza che caratterizza il mondo contadino, sempre uguale a se stesso per secoli; immutato fino all’invasione delle fabbrichette che ne hanno contaminato i ritmi di vita e rovinato il paesaggio.

Quand’ero bambino, per far conoscere qualcos’altro dal mondo è arrivata la Televisione: ci ha mostrato l’America, una certa America. I film di indiani e cawboys hanno mutato i miei giochi d’infanzia e i fossi asciutti durante l’estate si trasformavano in sentieri nella prateria.

Ma la televisione ha portato anche le notizie, i telegiornali; ha aperto una finestra su un mondo lontano e più ampio dell’orizzonte fino ad allora osservabile dalle finestre delle case di campagna.

Fu così che alla classica domanda che gli zii, i quali avevano appena superato il gradino evolutivo da contadino a operaio, inevitabilmente hanno posto a un ragazzino di dodici anni, a metà della terza media, ho risposto «voglio fare il giornalista».

Mi riconoscevano il senso di osservazione; e poi sapevo anche scrivere bene in italiano in quella profonda bassa padana del Nord-Est in cui il dialetto veneto è tuttora difficilmente sostituibile nel parlare comune. Però non credo che una simile risposta fosse stata contemplata da loro: il successivo gradino nella scala di emancipazione, per un figlio di contadini operai, doveva essere al massimo il ragioniere, destinato magari poi a un posto in fabbrica; però in ufficio.

Ma il giornalista che cavolo di lavoro è? E poi mica si trova un lavoro da giornalista lì, a cavallo del Livenza, tra la Motta e Sacile.

E poi… al Liceo Classico vuoi andare? E cosa fai col diploma di Liceo Classico? Non puoi neanche entrare in banca con quello! Casomai vai in Seminario a Vittorio Veneto se ti piace studiare; magari un prete nel clan famigliare avrebbe potuto anche starci comodo, sebbene non fosse il progetto ideale per un “figlio unico”.

L’hybris porta alla ostracizzazione dei pari; in questo caso dei parenti.

Arrivato al ginnasio, mi sarei scordato per qualche decennio del mio desiderio di fare il giornalista. Si può arrivare a destinazione per via diretta, oppure dopo svariate deviazioni; tutto sommato la seconda opzione consente di accumulare quelli che qualcuno può giudicare errori e fallimenti, ma che infine sono solo molteplici esperienze.

Vecchio gelso
1976, esondazione del torrente Sentiròn in località “Le Monde”. Un vecchio gelso, relitto dell’allevamento del baco da seta, tratto di unione che ha trasferito i capitali dall’agricoltura all’industria del mobile.

 

Ed è stato così che al terzo anno, in prima liceo, io e alcuni compagni di classe scoprimmo che il nostro insegnante di matematica e fisica era appassionato di Fotografia.

A metà anni Settanta la fotografia iniziava a divenire popolare anche in provincia, le più sofisticate fotocamere reflex giapponesi si potevano trovare abbastanza facilmente, solo ordinandole nei negozi di ottica e aspettando qualche settimana, ma qualche apparecchio meno costoso in vetrina si riusciva a scorgerlo.

Così chiedemmo al Bini se fosse stato disposto a tenerci un corso di Fotografia, pomeridiano e gratuito. In realtà quel nostro prof si chiamava Romagnoli; il nome proprio credo non si sia mai saputo tra gli studenti; era soprannominato il Bini a causa della e stretta, quasi una i, che entrando in aula la mattina sottolineava la frase «bene bene, chi interroghiamo oggi?».

Il momento di panico che ne seguiva era sempre stemperato dal grande rispetto che portava verso noi studenti, ci dava rigorosamente del lei anche quando ci rispediva al posto impreparati; il suo rigore imperforabile, come l’abbigliamento, e la figura un po’ gobba che lo distingueva anche a distanza di decenni, sempre uguale a se stesso. Lo abbiamo ritrovato ad una cena di maturità, a trentacinque anni di distanza dall’esame, ed era ancora identico: forse era nato già vecchio, con quel cappotto marrone a spina di pesce, con la sciarpetta e il cappello a piccole tese rigorosamente in tinta. Non si ricordava i nostri nomi, ma di aver fatto un unico corso di fotografia a tre-quattro studenti quello sì, e subito gli si illuminarono gli occhi quando, per fare la foto ricordo, estrassi la mia moderna digitale dalla borsa.

Alla prima lezione ci portò solo dei libri fotografici. Bisogna ricordare a chi è più giovane che a metà anni Settanta non esisteva internet, la televisione era in bianconero e con due soli canali nazionali; la possibilità di conoscere semplicemente i nomi dei grandi fotografi, e di vedere qualche loro foto, era molto improbabile, se non attraverso i rari e costosissimi libri fotografici che iniziavano ad arrivare nelle librerie più blasonate direttamente dall’estero.

Fossimo stati a Venezia sarebbe stato tutto più facile, lì c’era già la Gondola che diffondeva la cultura fotografica, ma anche questa informazione nella Pordenone di quegli anni, da poco diventata Provincia, non c’era modo di conoscerla; a meno di cento chilometri di distanza.

Il Bini mi mise in mano La Creazione di Ernst Haas.

[segue…]