LA MEMORIA ANALOGICA

Il “Bar Nuovo” è già vecchio. non ha mai funzionato, elemento estraneo alla natura agricola del luogo. La vecchia casa colonica, pericolante, resiste. Olympus OM1, Fomapan 100 film.
A – il fallimento di un modello

La foto in evidenza del mio precedente viaggio all’indietro nel tempo, estratta dal mio primo rullino scattato ad inizio 1976, oggi ha fatto sorridere più di un amico che sa quanto io detesti la street photography (definizione allora sconosciuta), forse anche per via dello stereotipo dell’omino, al centro dell’immagine, che guarda il cantiere.

Ma ogni foto ha una storia, quell’omino aveva una storia. Era colui che abitava nella casa contadina sullo sfondo che sarebbe stata sovrastata dal cantiere; un tipo strano, mai sposato: «aveva un problema» come dicevano, ed era un po’ tonto. Il fratello più furbo aveva diviso l’eredità convincendolo che sarebbe stato il più fortunato tra i due conservando la casa (e la cura della vecchia madre); lui invece aveva ceduto il terreno nudo, ma edificabile, antistante ad un impresario edile che ci avrebbe costruito una palazzina per il nuovo esercizio commericale – e gli avrebbe realizzato in cambio una villetta -, imprigionando il fratello tonto nell’ombra del cemento armato e del suo disagio.

Quella storia, come scrivevo, si intreccia anche con la mia storia, quella che da quel momento in poi avrebbe disegnato la mia vita.

Volevo fare il giornalista, come dicevo; ma erano le pagine fotografiche di Epoca quelle che divoravo e il mio desiderio di possedere una macchina fotografica, di andare al liceo, mi aveva reso diverso da ogni altro ragazzo del paese che desiderava una canna da pesca e sognava un motorino da elaborare. Forse mi identificavo con quell’uomo emarginato, e appena possibile ho ripudiato quel mondo contadino, cancellando contemporaneamente le mie radici, il rapporto con la Natura immutabile, e con il Fiume.

Ieri ho deciso di mettere in pratica qualche insegnamento che un noto Fotografo efficacemente stronzo si pròdiga di impartire attraverso il mezzo efficace dei social: andare alla ricerca di se stessi e delle proprie radici («fotografiamo ciò che siamo») e di «raccontare una storia» in poche immagini, meglio se sono le 36 di un rullino analogico. La nostra Memoria è di fatto analogica, è fatta di relazioni che siamo noi stessi a costruire. Fotografare ciò che siamo significa ricostruire queste stesse relazioni che ci hanno accompagnato da un cambiamento all’altro, da un fallimento all’altro e anche da una gioia all’altra.

Raccontare la storia di se stesso attraverso le proprie foto, e grazie alla Fotografia, penso sia una delle esperienza più analitiche e anamnestiche, anche dolorose, che un fotografo possa fare.

Probabilmente avevo anche un debito col passato da saldare, come avessi lasciato quel mondo, che conserva ancora le mie radici, senza salutare.  Decidere di andare in città per studiare in un liceo, per inseguire le mie inquiete aspirazioni, tra compagni di classe tutti appartenenti alla medio alta borghesia locale, mi aveva costretto non solo a nascondere le mie radici contadine, ma addirittura a rinnegarle. Sia ben chiaro, non ho sofferto nessuna emarginazione al Classico per la mia origine. Ma in ogni caso le mie radici dovevo riabilitarle.

Sono tornato sui luoghi e sui ricordi della mia infanzia con la fedele Olympus OM1 , anche lei non tornava in quei posti da quarant’anni. Poi sono tornato a casa un po’ scosso, ma sollevato; come se quel debito col passato l’avessi saldato.

Ho iniziato ripetendo quella foto, quella del cantiere: la pellicola fissa l’immagine di quello che potrebbe sembrare un nuovo ricordo visivo, in realtà è ancora quella Storia, quella iniziata quarantadue anni fa, che si arricchisce e che forse si conclude. La vecchia casa colonica – che all’epoca si pensava dovesse finire demolita – è ancora lì, benché decrepita e col tetto sfondato, ha resistito più delle persone e delle storie che l’hanno abitata. Il “Bar Nuovo” in cemento armato che allora rappresentava il futuro invece ha aggiunto ulteriore degrado al luogo, coi muri scrostati e i vetri rotti, perennemente chiuso nonostante innumerevoli amministrazioni, tutte fallimentari: in quella struttura sociale contadina un moderno bar, pizzeria, gelateria, ecc… non avrebbe mai potuto scalzare l’archetipo della tradizionale bèttola in cui il contadino ancora oggi, invece, desidererebbe entrare con gli stivali infangati, scendendo direttamente dal trattore, per bere un bicchier di vino e magari a farsi una partita a briscola mentre discute sul prezzo del granturco. Quello che allora sembrava un miraggio di modernità è ora il segnale del fallimento di quel modello di modernità in una struttura economica di tipo contadino così legata alla terra più che al cemento. In questa foto ripetuta, segnata dal degrado edilizio, c’è una grande vincitrice: la Natura. L’esile fuscello di quarantadue anni fa copre tutto con la sua potente ombra.

 

Ai primi anni delle elementari, la maestra ci faceva sedere sull’argine a “Disegnare il fiume”. Questo è ciò che esattamente vedevo cinquant’anni fa. Olympus OM1, Fomapan 100 film.
B – Disegnare il Fiume

Durante i primi tre anni di scuola elementare la maestra, nelle prime belle giornate di primavera, portava la nostra classe multipla su un’ansa del Livenza, oltre l’argine retrostante il Monumento ai Caduti. Ci faceva portare un quadernone a fogli bianchi, matita e pastelli colorati: andavamo a disegnare il fiume. Ancora non lo sapevo si trattasse di una attività didattica dedicata allo sviluppo delle abilità artistiche, per noi bambini era solo una mezza mattina fuori dalla classe, poco più che un gioco; nella società contadina non c’era necessità di sviluppare le abilità artistiche.

Questo è uno dei rari ricordi che ho della scuola elementare, insieme alle partite di calcio sul cortile di ghiaia battuta che ci costringeva ad entrare in aula con le ginocchia perennemente piene di croste insanguinate. È un ricordo che è riaffiorato molto spesso nelle mie fotografie di questi ultimi anni, anche se i fiumi erano il Tevere o il Danubio – più spesso il piccolo Noncello – perché da bambino mi impegnavo molto in quel tipo di esercizio visivo: ero l’unico dei bambini che si sforzava di superare lo stereotipo di albero/palla, cielo/azzurro, sole/giallo, acqua/blu. Mi sforzavo di distinguere le forme allungate dei pioppi, quelle coniche delle acacie e quelle schiacciate dei cespugli.
«Il bambino ha capacità di osservazione, ha spiccate doti artistiche» diceva la maestra a mia mamma; non sono sicuro che mia madre capisse il senso di quelle parole, ma io ricordo di essere stato gratificato dai complimenti della maestra. Mio padre riteneva che gli artisti dovessero essere destinati a fare i morti di fame; del resto su di me questo pregiudizio sul fare arte non ha mai costituito un problema perché mi sono sempre considerato un pragmatico, l’opposto di quanto si pensa debba essere un artista, un creativo. Curiosamente oggi insegno ad amarla l’Arte:è la Nèmesi.

Però ho sempre saputo disegnare molto bene e fu per questo che una dozzina di anni dopo, alla fine del Classico, indeciso se iscrivermi a Lettere per inseguire il mio desiderio di fare il giornalista – ma come ho detto non era la penna lo strumento di narrazione che mi attraeva – ho deciso di iscrivermi ad Architettura.

Quell’ansa del fiume dove la maestra ci portava è ancora perfettamente identica a oltre cinquant’anni fa; qualche vecchio albero non c’è più – non è solo una metafora –, ma la visione che ricordavo e che si traduceva nei miei disegni infantili si sovrappone esattamente alla foto che ho scattato; c’era persino una vecchia barca a fondo piatto semisommersa, come la ricordavo, con la differenza che quella di oggi è di plastica. La Natura è rimasta immutata, come pure il suo Genius Loci e la pratica di semina e raccolto che lo pervade, nonostante io ne sia fuggito e la mia vita sia cambiata.

 

Qui Oscar preparava il campetto da calcio. Ora governa le mucche e mi dà del Lei. Olympus OM1, Fomapan 100 film.
C – Chi è rimasto

Un paio di chilometri più a sud lungo il Fiume c’è una borgata in cui la natura contadina fondamentalista degli abitanti era nota anche cinquant’anni fa, tanto che tra i ragazzi e i bambini del paese e di quella borgata non correva buon sangue: una sorta di lotta per la supremazia della “contadinità” che d’estate si traduceva in sfide che somigliavano più a partite di Calcio Fiorentino che a quello tradizionale. Eravamo in pochi nelle due squadre, mescolati tra elementari e medie per arrivare almeno a sette per parte, con differenze fisiche e di stazza notevoli. Ci andavo a giocare di nascosto dai miei, che non approvavano. Ero alto ma magrissimo e dinoccolato, negato ad ogni prestazione atletica: in più dovevo giocare senza occhiali perché se li avessi rotti sarebbero state bòtte, arrivavo in ritardo su ogni pallone giocato.

Ci si sfidava su uno spiazzo erboso irregolare ai piedi del grande argine. Oscar era uno dei ragazzi della borgata, una decina di anni e parecchi chili più grande di me, era quello che metteva il campo, tagliava l’erba e portava il pallone: un pallone di cuoio secco e ruvido collaudato a resistere anche al gioco su ghiaia. Quando lui arrivava palla al piede io dovevo cercare di fermarlo e lui senza minimo sforzo diceva «spòstati bòcia» e mi stendeva come fossi uno stecco di gelato. Quella volta che calciò una punizione in cui io ero l’unico uomo in barriera… ricordo di essermi svegliato sotto un mezzo secchio d’acqua proveniente dal pozzo della sua casa contadina. A casa poi le ho anche prese dai miei, perché hanno notato il segno rosso della cucitura del pallone sulla fronte.
Ieri l’ho visto, invecchiato e ingobbito, mentre con una carriola prelevava il mangime da portare alle mucche di una piccola stalla costruita dove una volta c’era il campetto da calcio.

«Mi ricordo che cinquant’anni fa qui ci venivo a giocare a calcio»

«Eh… bei tempi; chi è Lei?»

Gli ho detto il nome, non credo mi ricordasse; in ogni caso non ha detto nulla, ha ripreso la carriola ed è entrato nella stalla.

Mi ha dato del Lei.