IN PRINCIPIO ERA IL DADA

Da dove cominciare? Non è semplice esaurire in un breve testo il difficile rapporto tra l’Arte e la Fotografia, dibattito iniziato con Baudelaire che ancora emerge soprattutto tra gli studiosi di filosofia Estetica. Non entro nel merito delle teorie che si contrappongono (c’è chi parla di “incapacità di Rappresentazione”, di “funzione protesica” e di “cornice Albertiana” a proposito della fotografia), noto solo che ultimamente c’è un grande abuso dei termini “fotografia artistica” e “fotografia fine-art” (che indica solo la pratica fotografica artigianale!) da parte di molti fotografi e fotoamatori.

Io ritengo che tutto ciò sia basato su un colossale equivoco, già smascherato da Man Ray (“La photographie n’est pas l’art” – La fotografia non è arte – 1943) quando scriveva «se un uomo si ingegna di imitare i processi naturali (… pretende …) di eseguire un’opera d’arte con la macchina fotografica, quando in realtà sta realizzando con essa un buon disegno automatico». Man Ray ci sta dicendo che il limite insito nella fotografia consiste proprio nel suo naturalismo di origine maccanica, quello che viene popolarmente definito “riproduzione della realtà”, ma anche che la fotografia è semplicemente una… tecnica! Più esplicitamente, in modo simile, converrebbe chiedersi: la pittura è arte? La scultura è arte? …la scrittura è arte? Ovviamente no! Però ci possono essere quadri, sculture e poesie che sono Opera d’Arte. Anche la fotografia perciò è una tecnica che di per sé non è artistica: può produrre un’opera riconosciuta come Arte se chi la impiega, in determinate condizioni, è esso stesso un Artista.

Questo principio ci porta all’origine di tutta l’Arte Contemporanea: il riconoscimento dello statuto di Artista all’interno della società viene prima di qualsiasi altro giudizio di merito sull’opera da lui stesso prodotta. L’aveva ben compreso Pietro Manzoni – le cui radici dada sono bene individuabili – che più tardi deve aver pensato «se io sono riconosciuto come artista, qualsiasi cagata io faccia, è Arte»; e infatti lo ha dimostrato, non solo in senso metaforico.

Tornando alle origini del Dada, le performances e le installazioni (altri fattori che rinviano alla contemporaneità) che si tenevano al Cabaret Voltaire di Zurigo erano tutte rivolte al riconoscimento della figura dell’Artista che le interpretava; solo così può essere spiegata, in quest’epoca, la estemporaneità del oggetto d’arte: non necessariamente l’Opera d’Arte deve persistere, l’Artista può crearla così come distruggerla perché il gesto creativo dell’Artista è la traduzione di un Pensiero che prevale sulla materia. Prima viene l’artista e il suo Pensiero, poi – eventualmente – l’opera materiale.

L’Artista è colui che dà forma al Pensiero.

Conviene tenere ben presente questo principio che a mio avviso non è stato ben compreso dalla critica d’arte, troppo concentrata a esprimere un giudizio stilistico, di tradizione crociana e di cultura borghese, sull’opera d’arte intesa come manufatto; ancora oggi molte delle creazioni dadaiste sono etichettate in modo riduttivo, con aggettivi come bizzarra, irriverente, ironica, divertente… quasi che la ricerca dell’elemento ridicolo fosse centrale. Io ritengo invece che una lettura di tipo strutturalista possa far comprendere meglio il Pensiero Dada che si distacca radicalmente dalle sperimentazioni del periodo. Tutti i movimenti d’Avanguardia di inizio Novecento si erano proposti come portatori di un’arte nuova rispetto al passato (e allo stesso Impressionismo che col passato per primo aveva rotto i ponti), ma tutti hanno agito solo sul piano della materia stessa dell’arte: il quadro resta tale, i colori ad olio restano tali, la scultura deve dare una statua. Lo stesso Futurismo, che sembrava essere quello di maggior rottura, era fortemente legato alle tecniche tradizionali e alla materia stessa dell’arte: il rinnovamento era solo stilistico, coinvolgeva solo le forme e i colori. Il rifiuto che i futuristi manifestavano per la fotografia – le sperimentazioni dei Bragaglia erano irrise – ne sono prova e dimostrazione. Anche il linguaggio rimaneva sostanzialmente di stile tradizionale: la parola che ha un ruolo centrale anche nelle creazioni di Marinetti, rimaneva legata al suo significato e, sebbene disposta in libertà sul foglio di carta, le sue poesie restano poesie.

Autoritratto sul WC dell’Eurosporting (16 agosto 2018)

È proprio sul concetto di Parola che si misura la distanza del Dada dal Futurismo e dalle altre Avanguardie. Per meglio comprendere il senso di questa affermazione però bisogna fare un paio di importanti premesse.

La semiotica e la semiologia, nuove scienze che studiano le forme della comunicazione – quella verbale e quella dei segni –, nascono proprio in questi anni. In particolare proprio nel 1916 è pubblicato in Svizzera il “Corso di linguistica generale” che raccoglie il frutto delle lezioni tenute da Ferdinand de Saussure a Ginevra, testo che sta alla base dello Strutturalismo. Inoltre ancora in Svizzera sul finire del XIX secolo furono pubblicati i primi studi sulla cecità per le parole, quel meccanismo cognitivo che qualche anno dopo verrà definito dislessia, una forma di riordino disfunzionale del cervello rispetto ai segni grafici e alfabetici.

Non ne ho trovato nessun riscontro nei testi di Storia dell’Arte o di Fotografia – non in quelli che conosco – ma è impensabile credere che intellettuali come Hugo Ball e Tristan Tzara, teorici del pensiero dadaista, non fossero informati sugli ultimi studi in materia di Linguaggi che circolavano proprio in Svizzera durante la Prima Guerra Mondiale, soprattutto di quelli riguardanti i meccanismi che concorrono alla formazione della Parola. Spero che, a livello universitario, qualche tesi di ricerca possa approfondire tali eventuali influenze.

De Saussure, in particolare, aveva affermato che la Parola dà forma al Pensiero: la Parola è la prima attività dell’ingegno creativo che poi può tradursi in segno alfabetico, rappresentativo o simbolico. Del resto, già Aristotele (come posso non ricordare la versione dal greco proposta al mio esame di maturità nel 1978?) aveva affermato che ciò che distingue l’uomo da tutti gli altri animali è il Lògos, nella doppia accezione che in greco vuol dire sia Parola che Pensiero.

La Parola, il dare un nome alle cose, è il primo e principale atto creativo; non lo dicono forse anche le Scritture? Giovanni il Giovane, l’unico tra gli evangelisti ad aver conosciuto Cristo, utilizza proprio il termine greco Lògos all’inizio del suo Vangelo: En archē ēn ho Logos, kai ho Logos ēn pros ton Theon, kai Theos ēn ho Logos (In origine c’era la Parola, e la Parola era in Dio, e Dio era la Parola). Dio crea le cose, il mondo, il giorno e la notte, nel momento in cui dà loro un nome.

Le cose esistono solo in quanto hanno un nome; se una cosa non ha nome… non esiste. Secondo una visione strutturalista che, come ho etto, doveva essere già nota agli intellettuali Dadaisti, dare il nome alle cose è il supremo atto creativo umano, ciò che più avvicina a Dio anche secondo una visione laica, più importante della manualità artigianale che aveva finora contraddistinto la pratica artistica: il Lògos viene prima della Technè. L’artista, una volta riconosciuto come tale – come dicevo -, non deve preoccuparsi di realizzare manufatti (statue, quadri, ecc) può semplicemente limitarsi a dare un nome a oggetti già pronti. Ovviamente gli oggetti esistenti, per il solo fatto che esistono, hanno già un nome che universalmente e convenzionalmente ne trasmette la forma e la funzione: ad esempio la parola “casa” definisce un concetto, un Pensiero, immediatamente identificabile da ognuno di noi pur con le dovute differenze geografiche, anche se per descriverlo non basterebbero trattati di architettura, di sociologia, di storia, ecc.

Ma cosa succede nel momento in cui un oggetto esistente è sradicato dalla sua funzione e, per il solo fatto di variarne la diposizione, la sua forma – pur stante immutata la sua geometria – sarà stravolta? Il nostro cervello, il nostro Pensiero, subisce una sorta di disorientamento, di straniamento: ci troviamo di fronte ad un oggetto completamente nuovo già pronto nella sua materialità (ready made) che attende solo di essere nuovamente nominato. In questo momento interviene l’artista dada (dada riassume qualsiasi parola del vocabolario nel pensiero vergine di un lattante) che compie il divino atto creativo di ridenominazione.

L’Arte Dada si distingue da tutte le altre Avanguardie perché non interviene sulla materia dell’oggetto d’arte, ma agisce direttamente sui meccanismi di costruzione del Linguaggio che stanno alla base di qualsiasi codice semantico: è assolutamente avulsa da questioni riguardanti la forma e lo stile perché ciò che conta è il significato. Il Dada frantuma qualsiasi struttura linguistica legata all’arte del passato, ne azzera ogni codice e ne demolisce i simboli. Sarà poi compito dell’Arte Metafisica e Surrealista ri-strutturare i linguaggi della comunicazione artistica, facendo dello straniamento una nuova poetica e svincolando le immagini dalla rappresentazione degli oggetti corrispondenti (“questa non è una pipa”). Tutta l’Arte Contemporanea è debitrice al Dada.

La distanza del Dada dalle altre Avanguardie, e in particolare dal Futurismo, si può misurare confrontando due opere dal significato simile, o quantomeno avvicinabile, e le rispettive rappresentazioni.

Umberto Boccioni, Materia; 1912

Materia, dipinto di Umberto Boccioni del 1912, è uno dei capolavori della pittura futurista, successivo di due anni alla pubblicazione del Manifesto Tecnico firmato anche dallo stesso Boccioni; è un’opera di generose dimensioni, monumentale in senso classico (moneo/maneo), dipinta a olio su tela. È un quadro nel senso tradizionale del termine (così come Forme Uniche… lo è altrettanto in quanto scultura bronzea). Boccioni ritrae una figura femminile con tecnica divisionista e con una scomposizione derivata dal Cubismo; si tratta probabilmente della madre, ma il riferimento è in generale alla maternità come suggerisce il titolo Materia. Il gioco di parole è evidente e si appoggia al termine latino (altro elemento classico): in senso simbolico, la mater è colei che dà forma, anzi dà vita, alla materia.

 

Marcel Duchamp, Fontana; 1917 (foto di Man Ray)

Anche Fontana di Duchamp gioca astutamente con le parole, non nel titolo, ma nello pseudonimo con cui l’artista si firma: Mutt R. (R. Mutt, anteponendo convenzionalmente l’iniziale del nome) ricorda alfabeticamente il tedesco mutter e la pronuncia anglofona mother, madre. Però l’opera, l’oggetto materiale, non ha apparentemente nulla di antropomorfo, anzi non è neanche una “scultura”… è un semplice orinatoio, del tipo comunemente definito vespasiano, prodotto industrialmente e acquistato in qualche emporio, o forse addirittura recuperato da un edificio in demolizione: la forma dell’orinatoio permette funzionalmente all’uomo di avvicinare o introdurre il proprio membro per svolgere una delle più comuni funzioni biologiche. È un oggetto già esistente, realizzato in serie da qualche macchina, neanche dalla mano di un artefice, che è stato svincolato dal suo contesto abituale, dalla sua funzione tradizionale; posto orizzontalmente su un piedistallo produce straniamento, diventa “altro”, evoca una forma vagamente vaginale in rapporto alla quale possiamo immaginare che il membro maschile possa aver svolto un altro tipo di funzione biologica, di tipo riproduttivo se riteniamo che il titolo Fontana possa riferirsi allo sgorgare della Vita, o più semplicemente rivolto al reciproco scambio di piacere se ci sforziamo di comprendere l’ironia e lo stile di vita degli artisti dada. Fontana è, se vogliamo, una più moderna rappresentazione dell’Origine del Mondo, il simbolo del piacere a cui l’uomo tende in senso freudiano, o più semplicemente – per dirla alla Woody Allen – «ciò da cui ci abbiamo impiegato nove mesi a uscirne fuori e ci mettiamo tutta la vita a cercare di tornarci dentro».