MA LA BELLEZZA IN FOTOGRAFIA E’ DAVVERO UN VALORE?

Probabilmente no; sicuramente dipende.

BREVE STORIA (PERSONALE) DELLA BELLEZZA

Prima di tutto bisognerebbe mettersi d’accordo su cosa si intende per “bellezza”. E già questa è una missione impossibile perché la bellezza è una qualità estremamente soggettiva, legata al contesto storico e sociale e infine ai gusti personali che possono anche essere mutevoli nel tempo; a me, per esempio, il risotto da giovane non piaceva, ora ne vado pazzo.

Nell’antichità classica la Bellezza era davvero un concetto astratto fondato su criteri universali, oggettivi e misurabili, come la Proporzione e l’Armonia, e su valori etici e morali che venivano riassunti nella parola “Virtus” che porta nella sua etimologia il genere maschile.
Noi oggi, invece, facciamo coincidere la qualità/bellezza con il gusto/piacere; il secondo parametro si è socialmente affermato a partire dal Medioevo, e non a caso quando all’interno delle Corti si è cominciato a parlare anche di Amore. Dante provava piacere agli occhi al passaggio di Beatrice: quel piacere (però Dante aveva anche una moglie, birbante d’un Dante…) che l’ha fatto innamorare lui lo chiamava Bellezza, ma altro non era che la sublimazione di una forma di desiderio, e di possesso, per l’universo (e il corpo) femminile.

Le parole chiave del maschilismo dantesco (slide da una mia conferenza)

Insomma, è tutta colpa del pensiero medievale che ha legittimato il desiderio, il piacere e l’amore – ben poco idealizzati a ben guardare – e in nome del quale persino il tradimento coniugale veniva visto con simpatia (basti pensare a Ginevra che cornificava addirittura il Re con il palestrato Lancillotto, o il furbetto Paolo Malatesta che eccitava la cognatina Francesca Da Polenta con letture licenziose, giusto per scaldare i “preliminari”) se da quel momento la Donna ha incarnato l’Ideale moderno di Bellezza. E da allora non è più bello ciò che è bello universalmente, ma solo ciò che piace. La Bellezza è, dunque, Piacere. I like!

E l’Arte?
L’arte gotica (ad esclusione di Giotto che, aderente alle rinunce francescane, rifuggiva il lusso) era naturalmente allineata a questo pensiero dal gusto molto glamour, con le sue dame bionde acconciate di treccine imperlate, col mascara ed il fard in volto, ingioiellate ed elegantemente vestite di sete e damaschi: ma poi sempre meno vestite a incarnare l’ideale botticelliano. Molta fotografia di oggi si è fermata qui.
L’Umanesimo e il Rinascimento hanno tentato di riportare il concetto di Bellezza verso il più classico ideale platonico di Armonia, declinato al maschile, e sono pure riusciti a mantenerlo anche nel Neoclassicismo di ispirazione illuminista, ma hanno dovuto cedere di fronte alla consolidata laicità dell’arte veneta e delle sue Veneri, fino all’esaltazione dell’Eros femminile sublimato da Canova.
Proprio quando nasceva la Fotografia.

Questo è il panorama artistico cui ha guardato la neonata fotografia: un’arte tesa a definire un concetto di bellezza moderno finalmente basato sulla libertà del gusto individuale e indirizzato dal desiderio per il piacere declinato al femminile; bellezza è eleganza, sensualità, attrazione, seduzione.
Come in Dante, la bellezza genera piacere agli occhi e suscita desiderio di possesso.
L’aderenza a questo nuovo ideale penso abbia impedito alla fotografia di sviluppare un proprio percorso artistico autonomo; non solo: mentre l’Arte, avvicinandosi al Moderno, ha progressivamente abbandonato la necessità di ricorrere alla Bellezza nella ricerca di nuovi linguaggi, arrivando persino a far leva sul cattivo gusto per scuotere gli animi, la fotografia si è sempre trovata a rincorrere, inseguendo il miraggio della bella foto secondo schemi di giudizio arretrati.

La Natura che ci circonda è bella quando è “normale”

Ancora oggi sento dire che quella certa foto «ha una bella luce, ha una composizione equilibrata, le linee portanti esaltano il soggetto, il gioco di luci e ombre è ben ponderato…» eccetera. Ma non sono questi, forse, gli stessi parametri di lettura dell’immagine pittorica che erano in voga nel Primo Ottocento?
Insomma, perché diciamo che quella determinata fotografia «ci piace»? Cosa stiamo guardando?

 

BREVE ESALTAZIONE (PERSONALE) DELLE FOTO BRUTTE

«Vorrei riuscire a fare una foto brutta, ma che avesse senso».
È uno dei miei mantra, chi mi conosce lo sa; perché oggi è così difficile (molto difficile!) fare una foto brutta che ci troviamo sommersi dalla bellezza fotografica, quella che piace e che nei socialmedia, viene esposta in vetrina alla ricerca di attestazioni: sia ben chiaro, non giudico questo fenomeno un male! Se quella foto piace avrà tanti like (beh ovvio, è ridondante) e questo appagherà il fotografante. I costruttori di fotocamere e di cellulari hanno fatto in modo che le nostre foto non possano essere dei fallimenti che potrebbero incidere sul nostro bisogno di affermazione (e sulle loro vendite). Le macchina fotografica alla portata di tutte le tasche – e sempre in tasca a portata di mano – sono divenute un bisogno sociale, così come il frullatore o la lavatrice, sono un prodotto tecnologico che ha creato un’estetica di massa al quale ci dobbiamo adeguare: sono macchine che hanno in sé, e che riflettono, tutta la nostra cultura visuale comune, soddisfano una parte ormai irrinunciabile del nostro inconscio in modo tecnologico (ah Vaccari, quanto profetico sei stato!).

Siamo talmente circondati da foto belle che persino fotografi già affermati non rinunciano al consenso del pubblico virtuale, dei followers: magari una bella foto di un tramonto sul Po attrae spettatori alla mostra e fa vendere qualche catalogo. E poi ci sono foto belle e anche foto belle fatte bene, ma questo è un aspetto che concerne la padronanza di strumenti più sofisticati rispetto, ad esempio, ad un pur costoso smartphone: la sostanza però non cambia. Chiarisco con una metafora: Tizio è un neopatentato con l’utilitaria e il vicino di casa Caio è un pilota con l’auto sportiva: fin qui la differenza si nota; ma se entrambi guidano per andare allo stesso centro commerciale il sabato pomeriggio allora sono uguali in tutto e per tutto per quanto concerne le aspettative e le finalità. Un bel tramonto, ripreso col cellulare (e chi ha costruito quel congegno tecnologico sa benissimo che ci fotograferemo i tramonti) o con la reflex di ultima generazione che richiederà poi una buona postproduzione sarà solo un bel tramonto, tanto più pittoresco quanto più sarà esotico; al massimo quelle le foto testimonieranno di un luogo in cui siamo stati, certificheranno il nostro reddito, ma – oltre ad essere una forma di appropriazione di un luogo e di un tempo – fotograficamente non diranno nulla di più. Avremo realizzato foto inutili, o meglio che faranno sapere al mondo che esistiamo: la Bellezza non è mai inutile; neanche l’Arte è inutile, come erroneamente si crede.

Queste foto non sono soggette a giudizio estetico; testimoniano un fatto e la mia presenza a documentarlo

In ogni caso chi testimonierà il successo di quella immagine con un like sta solo manifestando il proprio gradimento per il bel tramonto e non certo per una buona/bella foto.
Quando guardiamo una fotografia stiamo osservando quallo che c’è dentro; e questo ci può anche stare bene se quella foto è testimonianza di qualcosa di irripetibile: la foto di un fallo di mano in area è testimonianza di un rigore non dato dall’arbitro (la moviola e il VAR sono conseguenti) così come le foto di un fatto di cronaca portate in tribunale o di un incidente stradale per l’assicuratore; quelle foto mostrano il fatto e certificano la presenza di un fotografo sul posto, al massimo anche la sua perizia tecnica (dovuta in buona parte anche all’attrezzatura), ma queste fotografie comunemente non sono mai sottoposte – salvo rari casi (Wegee) – a un giudizio estetico. E quando lo sono quasi sempre rimandano a una dimensione irreale, contraria all’essenza fotografica stessa: i commenti più comuni sulle immagini di quel drammatico 11 settembre sono stati «sembrava un film»; non possono essere classificate come belle fotografie (anche se ne sono state fatte mostre e libri, ma sicuramente restano testimonianze fotografiche utili per la Storia che ne verrà scritta.

Le fotografie di un bel tramonto come di un grave fatto di cronaca, pertanto, sono e restano degli oggetti trasparenti, immagini in cui si valuta esteticamente – nel primo caso – e storicamente – nel secondo – solo quello che c’è dentro la foto; la foto è bella se il tramonto è bello, è testimoniale quando invece è utile (anche se quello che c’è dentro è brutto). In entrambi i casi viene considerato solo quello che appare dentro la foto (solo qualche fotografo un po’ fanatico o un po’ retrò chiede «che carta è?»)
«Prof, quella foto è bella perché è bello il soggetto!» Stamattina, una mia studentessa ha splendidamente riassunto così quello che sto cercando di scrivere: potere dell’innocenza.

Ma… e il fotografo dov’è in tutto questo? Se ciò che vale, ciò che viene sottoposto a giudizio estetico, è quello che sta dentro la foto allora è vero che la fotografia la fa la macchina e non il fotografo! E non mi si venga a dire che il fotografo è quello che sceglie cosa fotografare, anzi col digitale diciamo pure che il fotografo è quello che poi sceglie tra quanto di inutile ha fotografato! E chissà pure tra quante foto di tramonti esotici, tra quanti paesaggi dell’Appennino toscano, tra quanti volti di bambini poveri o di vecchi sdentati, tra quante modelle strafighe nude in pose languide in luce morbida, tra quante persone riprese di spalle in controluce per strada… quel fotografo avrà selezionato quelle poche necessarie per sentirsi dire «che bella!».
«Ti piace vincere facile!» recita uno slogan.

I bei tramonti Turner li dipingeva un secolo e mezzo fa e il nudo femminile nell’Arte non rappresenta più la bellezza da oltre un secolo; i bambini poveri e i vecchi sdentati sono da turismo coloniale; le strade in controluce e i paesaggi senesi servono per vendere macchine fotografiche.

Cosa c’è di più desolato di un rudere dopo una pioggia invernale? Però la stampa baritata mi piace 😉

Uffa… voglio fare foto brutte e basta.