FOTO-GRAFIA AL BIVIO? – 1

Qualche giorno fa mi è scappata questa frase: «per fare una foto servono una macchina fotografica e un fotografo; la prima è indispensabile». Frase che un amico ha declinato anche con «per fare un quadro serve una tela e un pittore» facendomi intendere quanto a suo avviso non fosse possibile rinunciare al ruolo attivo del fotografo.

Sempre sul paragone con la pittura si va a finire; ma non sarebbe stato diverso se il riferimento fosse stato con la scrittura (cosa che –grafia renderebbe più legittimo) se non fosse sconosciuto ai più che anche in questi due sistemi comunicativi, la scrittura e la pittura, da tempo sono ormai accettate forme di composizione automatica – sarebbe meglio dire parzialmente autonoma – rese possibili dall’intelligenza artificiale.

La Fotografia è stata il primo sistema espressivo che, grazie alla macchina fotografica, ha reso possibile una riproduzione della Natura in modo automatico e per questo è stata oggetto di esaltazione, di critica feroce, di studio da parte di antropologi, di filosofi, sociologi ecc. che in questo mezzo hanno individuato il segno dell’evoluzione dei tempi e della Modernità.

 

Eppure ancor oggi, se da un lato risulta ineludibile il mezzo meccanico – la macchina fotografica, sia essa anche un semplice foro stenopeico – dall’altro non è stato ancora chiarito il ruolo e il contributo del suo operatore, il fotografo, ammesso che egli sia necessario.

 

Direi anzi che una certa sponda, ovviamente molto di parte, tende a sminuire l’apporto dell’apparato tecnologico che rende possibile l’acquisizione dell’immagine a favore dell’intervento creativo dell’operatore.

FOTOIT, febbraio 2019

Leggo sulla rivista FOTOIT, organo della FIAF, «se proviamo a levare l’aura di seriosità alla fotografia, intesa nel senso più classico o prodotta secondo canoni di virtuosismo tecnico, è più facile ricondurla a quell’istinto di narrazione che da sempre accompagna l’uomo» (Piera Cavalieri, Tendenze della fotografia contemporanea, i sentimenti del nostro tempo; FOTOIT n. 02 – febbraio 2019, pag. 20).

Leggere in una rivista fotografica che il virtuosismo tecnico costituisce una limitazione all’istinto di narrazione confesso che mi ha lasciato molto perplesso; ovviamente sono del pensiero opposto e, mettendomi nei panni del mio amico che col riferimento alla pittura intendeva difendere il ruolo dell’autorialità nella produzione fotografica, equivale a dire che la padronanza nell’utilizzo del pennello è un limite al pensiero del pittore: lo è stato in qualche epoca, ma solo perché alla padronanza nell’uso del pennello si è sostituita quella di altri strumenti.

Cloud Hunter, foto di Stefano Corsini; in FOTOIT pag. 24

Continuando a sfogliare la rivista si scopre un analogo slittamento dell’utensile legittimato e sostenuto inconsapevolmente ancora dalla Cavalieri quando illustra alcune immagini, definite germogli sperimentali, in cui «il linguaggio fotografico può sganciarsi dalla documentazione della realtà e seguire altre vie, al pari del cinema e della letteratura»: sono immagini frutto di elaborate postproduzioni, di fotomontaggi e fusioni in cui al virtuosismo di un mezzo tecnico, la macchina fotografica, si è solo sostituito quello di un altro mezzo tecnico, il computer con i suoi sofisticati programmi di editing.

Il mouse si è tramutato in pennello nelle mani del fotografo, il quale certo si sarà levato quell’aura di seriosità che gli veniva dal panno nero e dallo scatto flessibile per assumere però quella del guru munito di penna e tavoletta grafica.

A una forma di virtuosismo se n’è sostituita un’altra, un nuovo seme narcisista ha sradicato quello passato.

 

Tutto, ancora, nel tentativo di affermare il ruolo autoriale dell’operatore rispetto alla macchina fotografica, l’unica tra i due – come scrivevo nella mia frase provocatoria – ad essere davvero irrinunciabile; a costo di sacrificarla al potere dilagante del computer.

 

Per una fotografia che sia contemporanea, la Cavalieri – abile a non parlare della pittura – punta alla letteratura e al cinema come linguaggi di riferimento, dimenticando che strutturalmente questi sono sistemi espressivi diversi! Perché non la musica allora? Tutti i sistemi espressivi, ad esclusione della fotografia, si basano su una struttura narrativa, su un atto compositivo, su uno sviluppo lineare che implicano una trama, un tracciato, un inizio e una fine; persino il cinema delle origini aveva in comune con la fotografia solo la pellicola, ma esso è solo una forma differita della rappresentazione teatrale derivante da un soggetto, cioè da una trama narrativa scritta, la quale proviene dalla letteratura, dalla novella o dalla tragedia. Anche un brano musicale, dall’opera lirica all’ultima canzonetta, segue lo stesso sviluppo lineare e si serve di una forma di scrittura, le note, che lo rendono rappresentabile anche in forme diverse a distanza di decenni o secoli (ma quanto è pop Vivaldi?). E anche le arti figurative e la pittura sono ancora in gran parte rappresentative, cioè seguono una struttura narrativa per trasmettere degli enunciati o per mediare dei significati.

Stephen Shore, West 4th Street, Little Rock, Arkansas – October 5, 1974

Ma l’unico sistema espressivo legato indissolubilmente al presente, strutturalmente incapace di collocarsi nel passato o di proiettarsi nel futuro, per quanto in alcuni generi ricorra alla fiction, radicato nella contemporaneità, nella estemporaneità del hic et nunc, persino legato al luogo comune di attimo fuggente, è la Fotografia.

Perché, allora, tradire la sua singolarità volendola dotare di strutture testuali che non le appartengono – per puro complesso di inferiorità – anziché proclamare la sua autonomia rispetto alle altre arti, autonomia derivante proprio dalla sua dipendenza dalla macchina? Dall’essere il nuovo linguaggio figlio della modernità? Perché non riconoscere che l’unico – il solo irrinunciabile – ruolo del fotografo è quello di essere stato presente nel momento in cui la macchina fotografica ha estrapolato dall’insieme spaziotemporale della Natura quella determinata immagine? È persino assurdo assegnare al fotografo l’importanza creativa di aver scelto quel determinato istante perché nulla sappiamo di tutti gli altri.

È quantomeno ridicolo che, nel momento in cui certa cultura fotografica cerca di riconoscere un ruolo autoriale rinnegando la specificità meccanica della fotografia, siano proprio gli artisti “non fotografi” a comprenderne e a proclamarne l’autonomia rispetto agli altri sistemi espressivi, collocandola nel cuore dei nostri tempi, cogliendone gli aspetti antropologici e sociali, rilevando nella società dell’immagine i mutamenti indotti proprio dalla Fotografia, a utilizzarla per quello che è, cioè uno strumento tecnico che può anche produrre un’opera d’Arte.