LA MOSTRA DI ELIO E STEFANO CIOL – IMAGINARIO, SACILE

Testo esteso per la presentazione della mostra “Ciol e Ciol”, di Elio e Stefano Ciol, alla Galleria Imaginario di Sacile; 1 agosto 2020.
N.B. mi si perdoni il tono didascalico, gran parte delle considerazioni sono tratte da una lezione sul Paesaggio che normalmente rivolgo ai miei studenti liceali del Corso di Fotografia.


Presentare le opere in mostra di Elio Ciol è occasione da far tremare i polsi; le sue opere, presenti nelle collezioni fotografiche dei musei di tutto il mondo non hanno bisogno di spiegazione e sono la bandiera di un periodo in cui la Fotografia di Paesaggio ha avuto in Friuli i massimi esponenti.

Piuttosto bisogna sottolineare il ruolo che ha ora Stefano Ciol: scoprendo il suo profilo Instagram, si descrive come “erede di una dinastia di fotografi”, cosa che è sicuramente vera; ma riduttiva.
Stefano Ciol è l’erede di una tradizione, di storia e di valori culturali che vanno oltre la rilevanza del cognome: dopo la seconda guerra mondiale il Friuli è stato determinante nell’elaborazione di una idea di Paesaggio in Fotografia che ha superato i confini locali e anche nazionali, facendosi conoscere in tutto il mondo per aspetti diversi e complementari.

L’importanza della scuola friulana di Fotografia del Paesaggio non è stata mai sufficientemente valorizzata a causa della frammentazione locale e della prevalenza di alcuni singoli autori sull’esperienza generale. Solo il Gruppo Friulano per una Nuova Fotografia – formato da Aldo Beltrame, Carlo Bevilacqua, Gianni e Giuliano Borghesan, Toni dal Tin, Fulvio Roiter e Italo Zannier – è riuscito a conservare una sua riconoscibilità a scapito però dell’orgogliosa chiusura identitaria, quasi condizionata dal genius loci pedemontano, che ha limitato l’aggettivo friulano al solo territorio spilimberghese: nessun dialogo culturale con i fotografi udinesi e goriziani – Attilio Brisighelli, Carlo Pignat e Umberto Antonelli sono solo alcuni – dai quali volevano segnare una netta rottura, ma neanche con Elio Ciol e altri fotografi – Riccardo Viola, Gianfranco Ellero, Ilo Battigelli per citarne alcuni – che hanno concorso alla costruzione del “Mito del Paesaggio nella Fotografia del Novecento in Friuli” (titolo di un bel opuscolo curato da Gianfranco Ellero; 1988).
Di questa tradizione, di questa sedimentazione culturale, di questo mito, Stefano Ciol è ora l’unico che può definirsi erede.

La Luce
La Luce interviene spesso nei titoli delle opere di Stefano ed è un elemento comune con le opere del padre Elio; la luce non è solo l’elemento costitutivo della fotografia (scrivere con la luce), e neppure è solo l’elemento ambientale che arricchisce di atmosfera l’immagine: Guido Cecere – che mi trovo oggi indegnamente a sostituire e di cui a giorni ricorre un anno dalla perdita – la definisce ossigeno per gli occhi. Ma questo ossigeno non è solo la presenza di una “bella luce”; sarebbe molto riduttivo limitare l’atmosfera poetica che avvolge il paesaggio nelle fotografie di Elio e di Stefano all’aspetto luministico, al tempo atmosferico, come la presenza di nebbie o nuvole, perché limiterebbe il valore dell’immagine alla perizia tecnica che è sì presente, ma non è determinante; se così fosse non si tratterebbe di Paesaggio, ma di semplice panorama, come dirò poi.

La Luce, nelle fotografie di Elio e Stefano Ciol ha essenzialmente un valore antropologico, è metafora della Vita stessa; quando i fotografi erano ancora alchimisti e la scienza non aveva ancora scoperto la natura elettromagnetica della luce, si pensava che la sua materia costitutiva fosse fatta da particelle di vita, forse un modo positivista per definire l’anima. Non per nulla dopo la metà dell’Ottocento era fiorito il genere del ritratto funerario che doveva essere eseguito alla salma entro poco tempo dalla morte, quasi che la foto potesse in qualche modo conservare un frammento della vita; sempre sul finire del XIX secolo alcuni fotografi un po’ ciarlatani spacciavano foto di fantasmi che identificavano – guarda caso – come ombre luminose e, allo stesso modo, ancora diciamo di una persona defunta, che “si è spenta”. L’uso sapiente dei valori luministici ha perciò un senso comunicativo: la Luce è il fattore significante del contenuto poetico, declinato anche in modo romantico quando il fotografo ha pratica di opere d’arte.

Sul concetto di Paesaggio
Spesso si fa confusione quando si parla di Paesaggio: in questa definizione concorrono molte accezioni che non hanno nulla a che fare con ciò che si intende con Paesaggio in fotografia e in arte in generale.
Senza ripercorre la storia del concetto stesso, mi limiterò a osservare come il Paesaggio assuma un ruolo da comprimario a partire dalla pittura del Rinascimento a Venezia: con il superamento della Prospettiva Scientifica, geometrica, – che come vedremo è uno degli strumenti sintattici de linguaggio fotografico – la resa atmosferica dello sfondo non contribuisce solo alla tridimensionalità dello spazio, ma inizia ad assumere aspetti significanti ed emotivi: se la Prospettiva Scientifica era lo spazio della Ragione nell’Umanesimo, la Prospettiva Aerea – quella resa dall’aere, dalla densità atmosferica e dalla luce – rappresenta lo spazio dell’anima, dei sensi e della psiche. Ma il Paesaggio, pur assumendo finalmente un ruolo, rimane comprimario: è uno sfondo parlante.

Giovanni Bellini Allegoria Sacra, dal 1490.

Il Paesaggio diventa autonomo durante il periodo Romantico soprattutto grazie alla poesia e alla letteratura che si servono delle sue metafore per sollevare emozioni. Cosa si cela oltre la siepe di Leopardi? È indiscutibile che quel paesaggio nascosto alla vista sia invece ben presente nella metafora interiore. E Paesaggio è anche la fotografia dell’incipit manzoniano quando descrive “Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi…”.
In pittura lo
sfondo, da sempre sottomesso alla figura, nel frattempo si era fatto autonomo, soprattutto in Francia con Corot e con la Scuola di Barbizon emancipandosi completamente durante l’Impressionismo; la Fotografia, fedele amica degli impressionisti, non rimase certo ferma al palo e, come abbiamo visto, già sul finire dell’Ottocento aveva una sua scuola di paesaggisti anche in Friuli.
Ma, viste le premesse letterarie e pittoriche, le fotografie che Nadar scattava dal pallone aerostatico erano foto di Paesaggio? Direi di no, perché in esse prevale l’intento documentario rispetto a quello narrativo. Riprendendo allora una distinzione già avanzata da Gianfranco Ellero, bisognerà definire il significato di
Veduta e di Panorama rispetto a quanto è Paesaggio.

La Veduta affonda ancora le sue origini nell’arte veneta; come sappiamo, ne sono stati maestri Guardi e Canaletto che utilizzavano la camera ottica, antenata della fotografia: una reflex per disegnare. La Veduta è fortemente condizionata dalla sua aderenza alla visione oculare, persino nella profondità del cono prospettico (ecco l’utilità della camera ottica); in essa l’aspetto documentale è prevalente e il soggetto – sia esso un palazzo, una piazza, una prospettiva urbana “a volo d’uccello”, il Monte Cristallo incombente su Cortina – deve risultare perfettamente riconoscibile nei suoi particolari e nei rapporti con l’immediato contesto. Non deve comunicare nulla, se non suscitare il ricordo della medesima visione nelle persone che hanno scelto lo stesso punto di vista. Con la diffusione della fotografia, saranno proprio queste immagini a suggerire il miglior punto di osservazione ai turisti. La qualità delle vedute fotografiche prodotte dagli Alinari e dallo studio Ghedina rimane ancora ineguagliata.
Rispetto al carattere prevalentemente descrittivo del soggetto della Veduta, il Panorama si differenzia per il prevalere del generale sul particolare; la parola, utilizzata anche per descrivere una scenografia teatrale, deriva dal greco
pan (παν = tutto) e orào (ὁράω = vedo) e esprime il classico colpo d’occhio che ci permette di apprezzare la bellezza di un contesto nel suo insieme, come una vallata alpina, una città al tramonto dall’alto di un grattacielo o il Canal Grande dal Ponte di Rialto; la visione panoramica sostituisce l’aspetto descrittivo del soggetto con l’effetto emotivo della visione generale, tant’è che spesso per descrivere la visione di questo tipo di immagini si ricorre ad aggettivi come bello, emozionante, suggestivo, ecc.
Abbiamo già detto che, rispetto alle finalità descrittive o estetizzanti, il Paesaggio si distingue per i suoi aspetti narrativi, motivo per cui ciò che viene mostrato nell’immagine fotografica rimanda ad altro, a un mondo parallelo, a una realtà altra. Gli elementi significanti nella Foto di Paesaggio, e nella fotografia d’arte in generale, vanno considerati al di fuori del loro contesto naturale e, estrapolati da questo, rimandano a significati ulteriori, a dimensioni – autobiografiche, psicologiche, poetiche, antropologiche, narrative – che appartengono all’artista.
Scrive Italo Zannier: «Il paesaggio ci offre un’idea di realtà che è mascherata dall’esigenza di mostrare… queste fotografie sembrano – piuttosto e al di là delle intenzioni – sogni di realtà e a volte vogliono persino esserlo…»

Aver chiarito cosa sia il Paesaggio rispetto alla Veduta e al Panorama fa cadere, finalmente, tanti luoghi comuni e tanti stereotipi, quale – ad esempio – che solo i viaggi in posti lontani ed esotici consentano di realizzare belle fotografie. Lasciando stare la considerazione sul fatto che la bellezza non è più un valore nell’arte da oltre un secolo – e non si capisce perché debba ancora esserlo in fotografia – appare subito chiaro che la Fotografia di Paesaggio non sia solo connessa al luogo, all’ambiente o alla natura, ma appartenga alla capacità di vedere del fotografo, alla sua facoltà di individuare in un determinato contesto gli elementi significanti di una narrazione interiore. Luigi Ghirri invita a «cercare nella realtà le inquadrature che già esistono» e introduce così il concetto di soglia che sta alla base del fare fotografico.
La soglia è il punto di osservazione dal quale guardare il mondo, e il paesaggio, con nuovi occhi e implica la consapevolezza di alcuni aspetti irrinunciabili: a) la conoscenza delle regole sintattiche; b) la definizione della cornice; c) la capacità di astrazione metafisica.
Ognuno di questi aspetti meriterebbe un approfondimento e il rimando a studi specifici; ma brevemente possiamo riassumere che:
a) le regole del linguaggio fotografico sono date dalla visione prospettica monoculare; mentre l’arte, soprattutto col Cubismo, ha rotto definitivamente il legame con la visione oculare e prospettica della realtà, la fotografia ne è sottomessa dalle leggi fisiche dell’ottica che la costringono a un rapporto di verosimiglianza col referente: il nostro cervello, che conosce il mondo principalmente attraverso il senso della vista, per poter comprendere una immagine fotografica richiede il rispetto delle leggi della percezione (prospettiva centrale con fuoco all’interno della cornice, prospettiva accidentale con due punti di fuga esterni alla cornice, altezza dell’orizzonte a metà o al terzo inferiore, ortogonalità delle linee, bilanciamento delle masse, ecc) …o la loro trasgressione consapevole.
b) la cornice è l’elemento che distingue la pittura dalla fotografia; ovviamente non è la cornice fisica, ma il frame (anche questo con le sue proporzioni razionali, con il taglio orizzontale/verticale/quadrato) all’interno del quale vanno disposti gli elementi significanti. Ma mentre nella pittura la narrazione si conclude all’interno di una cornice albertiana in cui il pittore dispone ogni valore significante – sono presenti anche quei valori volutamente esclusi – perché nulla può mancare nella creazione del significato/messaggio, nella cornice kepleriana della fotografia ogni elemento viene estrapolato dal suo contesto e può raccontare, evocare e rappresentare altro, ogni legame col referente – esclusa l’impronta (impressione) bidimensionale che lo rende riconoscibile – viene spezzato come in un ready-made dadaista in cui una ruota di bicicletta, staccata dal manubrio e dal telaio, diventa altra cosa e può persino cambiare nome. Essendo l’immagine fotografica il prelievo meccanico di una porzione di realtà, non è realtà: quanto racchiuso all’interno della cornice viene risemantizzato. La Fotografia prende qualcosa che è già pronto, presente in natura, perciò una nuvola o un raggio di luce non sono più elementi atmosferici causati dalle isobare stagionali, ma diventano metafora della vita, atto di fede, versi di una poesia immaginata.
c) L’astrazione metafisica consiste nel saper vedere ciò che gli altri non guardano; la descrive bene lo stesso Giorgio De Chirico: «…ma ammettiamo che per un momento (…) si spezzi quella collana dei ricordi che ci fanno riconoscere le cose, chissà come vedrei (…), chissà quale stupore e quale terrore e forse anche quale dolcezza e quale consolazione proverei io guardando quella scena. La scena però non sarebbe cambiata, sono io che la vedrei sotto un altro angolo. Eccoci all’aspetto metafisico delle cose». Luigi Ghirri chiarisce ulteriormente questa facoltà: «Si tratta di attivare un processo mentale, di attivare lo sguardo e cominciare a scoprire nella realtà cose che prima non vedevamo».

Operazione mentale ed esercizio dello sguardo, scelta del punto di vista e determinazione della cornice si precisano in Ghirri nei concetti di soglia e di finestra. «Il problema è capire come ritagliamo queste finestre mentali, queste finestre che sono nella realtà e che ritroviamo mentalmente quando andiamo a fotografare […] Insomma, la fotografia consiste essenzialmente in due cose: prima di tutto nel riuscire a capire cosa è necessario includere all’interno dell’immagine; il secondo aspetto riguarda il come riuscire a dare a questo ritaglio del mondo esterno una sua valenza comunicativa». Ritaglio, prelievo, risemantizzazione; la Fotografia in sintesi.

Stare sulla Soglia, trovare il proprio punto di vista, è un atto della Ragione prima ancora che dello sguardo e consiste nel guardare il mondo con altri occhi, quelli di uno straniero (straniamento, in letteratura) o ingenui di un bambino. Ecco allora che per fotografare un Paesaggio non serve andare in posti esotici e lontani: le immagini di questi luoghi certamente farebbero crescere lo stupore negli osservatori, ma avremmo scattato foto di panorama, foto di viaggio, ma sicuramente questo non è Paesaggio.

Elio Ciol ha visto con lo stupore del bambino i gelsi, i filari di vite, i campi arati intorno alla sua Casarsa, la neve caduta sui tetti della Pedemontana: li ha guardati con purezza e, come un poeta tramuta in versi le parole quotidiane, ha trasformato in icone gli sguardi normalmente dimenticati dalla nostra indifferenza. Stefano si è inebriato della luce delle nostre valli prealpine e chissà in quali altri luoghi; ma poco importa sapere dove è stata scattata una certa foto, quando un certo raggio di luce ha bucato la nuvola per colpire quel ramo, come la terra secca ha disegnato una ragnatela: queste informazioni possono solo distrarre dalle suggestioni che queste atmosfere, metafisiche e surreali, suscitano il nostro sentire e affondano nel profondo delle nostre emozioni.