QUESTA FOTO LA SAPEVO FARE ANCH’IO

Non scherzo quando dico che questo sarebbe il più bel complimento che possiate farmi. La macchina fotografica, il mezzo tecnologico, ci mette tutti sullo stesso piano e quindi sì, in pratica anche tu avresti potuto fare facilmente quella foto.
Allora? Perché diciamo ancora queste parole?
Solitamente questa frase viene esclamata davanti a un quadro astratto, seguita da «ma cosa ci vuole a fare questi sgorbi?».

Dal sito Corriere.it

Le considerazioni che seguono nascono da due avvenimenti; il primo: il titolo di un articolo apparso su una sezione del corriere.it in cui si annuncia che la foto più bella vincitrice di un contest sembra un quadro. Per correttezza bisogna aggiungere che il titolista deve aver ricevuto qualche insulto e già il giorno successivo è sparito qualsiasi riferimento alla pittura. Il secondo: il giorno dopo mostro a un amico il volume fotografico di Paola de Pietri Da inverno a inverno e il suo commento è stato, appunto, «ma queste foto le potrebbe fare chiunque».

In entrambi i casi i giudizi, e qui non c’entra il livello di cultura di chi afferma, rimandano sempre al confronto con la regina delle arti visive, la Pittura.

© Paola De Pietri, Da Inverno a inverno. 2021.

«L’industria fotografica […] è il rifugio dei pittori mancati» sosteneva Baudelaire, non certo perché non amasse la fotografia e la sua cifra di modernità, in quella parte di Ottocento in cui ancora non era apparsa l’arte impressionista, ma perché aveva già visto una chiara tendenza alla massificazione dell’arte – indagata da Benjamin ottanta anni più tardi – e la conseguente degenerazione del gusto, della sottomissione del saper fare all’istanza della divulgazione generalizzata. Baudelaire non poteva sapere che, agli esordi del Novecento, le Avanguardie avrebbero messo la figura dell’artista al di sopra dell’opera da esso prodotta, aldi sopra della sua stessa bravura tecnica.

Il titolista del Corriere sembra vivere ancora al tempo di Baudelaire: la bellezza di quella foto sta tutta nella perizia del fotografo in grado di rendere quella foto bella come un quadro.

Proprio il timore di Baudelaire relativamente alla massificazione dell’arte ci aiuta a comprendere anche la seconda osservazione: nell’opinione comune – e purtroppo questo è ancora il modo in cui l’arte viene insegnata nelle scuole primarie – l’artista è unicamente colui che crea, che sa fare, che possiede il controllo tecnico del proprio mezzo espressivo, che persegue la bellezza e che, attraverso le sue opere, intende suscitare emozioni. Se il fruitore medio non riconosce tutti questi aspetti nell’opera d’arte, all’esclamazione «questo lo sapevo fare anch’io», segue immancabilmente «io proprio queste cose non le capisco, ma è arte questa?».

C’è una soglia dopo la quale queste affermazioni hanno una manifestazione? Ovviamente appare facile individuarne l’origine con l’avvento delle Avanguardie, e il motivo sta tutto nella distanza che l’Arte prende dalla pura visibilità ottica, dalla riproduzione dell’apparenza, diremo dal distacco tra la rappresentazione e la mimesis, cioè dall’imitazione realistica e impersonale della realtà.

La capacità tecnica di pervenire alla mimesis era considerata tradizionalmente la prima e principale competenza tecnica dell’artista: il controllo della prospettiva e delle proporzioni, la conoscenza dell’anatomia come del disegno dal vero, l’osservazione dei fenomeni naturali e atmosferici, la conoscenza del materiale dell’arte – pigmenti, pennelli, supporti, pratiche – erano imprescindibili nella formazione dell’artista, ma vissuti come un limite irraggiungibile dall’autodidatta; anzi questa esperienza dilettantistica non era neppure contemplata come possibilità, fino all’Impressionismo. Quando questo bagaglio di tecniche e di buone pratiche cede spazio al Pensiero, al concepimento creativo, all’arte concettuale per dirla con una definizione attuale, la massa di imitatori temuta da Baudelaire si ritiene all’altezza della semplice esecuzione materiale: «anch’io sono capace di far sgocciolare il pennello a caso sulla tela».

Ma lasciamo ora il terreno della pittura.

© Paul Hart, Farmed. 2018.

ll campo della mimesis è invece quello distintivo, nativo e costitutivo, dell’immagine fotografica; l’imitazione, o meglio il prelievo realistico della realtà, passa al mezzo meccanico, la fotocamera, che per sua natura è vincolato alla prospettiva ottica e alla registrazione impersonale del dettaglio (persino quello che sfugge al controllo del mirino); la massificazione digitale ha persino eliminato quelle competenze alchemiche che si pensava – erroneamente – fossero necessarie al fotografo artigiano. Fare fotografia è diventato estremamente facile e comune. Oltre a perdere l’aura di unicità, l’immagine fotografica ha perso anche l’istanza del saper fare artigianale che fino a una decina di anni fa la distingueva e le concedeva ancora un qualche valore. Tutto ciò ha aperto le porte al dilettantismo degli autodidatti; ciò è male? Assolutamente no se questa consapevolezza permane e invita la massa (continuo a usare questo termine nel senso dato da Baudelaire) a studiare e a informarsi, a divulgare il valore dell’immagine fotografica nella nostra società e a elevare il ruolo del fotografo dalla condizione medievale del sapere artigianale a quello umanistico di operatore intellettuale.

Invece no; la massa delle persone che fotografano, anziché concentrarsi sul senso dello sguardo, sulla semantica del soggetto – ciò che esso comunica –, sull’elaborazione di un proprio linguaggio espressivo – ciò che proiettano, per usare un termine freudiano, attraverso le loro immagini fotografiche – si preoccupa di distinguersi al proprio interno attraverso l’artificio retorico che è una nuova forma di saper fare manuale: col computer e Photoshop. Tutto ciò mentre l’industria fotografica e informatica ringrazia: il panorama degli utilizzatori è sempre alla ricerca di novità tecnologiche: il migliore filtro per la sostituzione del cielo, quello che trasforma l’atmosfera della luce, quello che elimina le ombre nette dal viso e liscia la pelle, e poi la resa del nuovo sensore, i megapixel, ecc.
Ando Gilardi, in tempi non sospetti, aveva affermato che la Fotografia si divide in chi la fa e in chi la compra. Chi ha la pretesa di distinguersi all’interno della massa di utilizzatori suoi simili, in genere sta dalla parte di chi la compra, di chi consuma tecnologie sempre nuove; siamo al consumismo fotografico.

Chi compra fotografia è convinto che il suo distinguersi con facilità, attraverso filtri e elaborazioni, riesca a conferire lo status di unicità e artisticità alla propria creazione; certamente i likes sui social non fanno altro che accentuare questa illusione, alla quale non sfuggono neanche certi giovani cultori della camera oscura, segno che la questione non è tecnica, non si tratta di analogico o digitale. «Questa foto solo io riesco a farla così» è un pensiero che prescinde dalla tecnica, analogica o digitale: è ancora un modo per distinguersi dagli altri sul piano materiale dell’arte, anziché su quello concettuale.

Non è questa una regressione al saper fare medievale? Dove sta la creazione intellettuale che delega la mimesis al mezzo meccanico? Un’immagine che tende a sembrare un quadro non è forse negazione della Fotografia? Non è forse l’avveramento della profezia di Baudelaire quando diceva che questa rischiava di diventare «il rifugio dei pittori mancati», loro malgrado?

La ricerca della foto bella e unica è un fenomeno di massa da cui fuggire: «fate foto brutte (ma fatele bene)» scrivevo qualche tempo fa.

Infine: se la Fotografia fornisce a tutti la possibilità della mimesis grazie al mezzo meccanico, espressione della nostra civiltà industriale, e senza bisogno di competenze tecniche, che bisogno abbiamo di distinguerci mediante la tecnica? Liberati dai vincoli del saper fare abbiamo la possibilità finalmente di distinguerci per il nostro Pensiero, di dar forma alle idee.

Recensendo il bel volume di Paola de Pietri, Michele Smargiassi nota come sembri «che il nostro sguardo sia in ritardo rispetto ai cambiamenti del mondo», che continuiamo a guardare e a fotografare ciò che conosciamo già e che ci rassicura, che ci adula; e non la realtà.

Sarebbe bello se qualcuno mi dicesse «anch’io ho fatto una foto come la tua», «vuol dire che abbiamo avuto la stessa idea» risponderei (idea e vedere hanno la stessa radice semantica fid), entrambi avremmo fatto una Fotografia; ma se l’osservazione rimane sul piano ipotetico «anch’io ero capace di fare quella foto» allora vuol dire che tu ti sei concentrato sul mezzo, e non sul fine: «grazie del bel complimento».