ABBECEDARIO, UN RICORDO DI GUIDO CECERE

Senza la presunzione di confrontarmi col bel ricordo di Guido Cecere scritto da Michele Smargiassi nella presentazione del catalogo di questa mostra e pubblicato sul suo blog Fotocrazia, mi permetto di aggiungere alcune parole; è un invito alla comprensione delle immagini che vedete, a spiegare il senso di questo suo accanimento nel comporre, per quasi cinquantanni, questo calendario alfabetico, l’Abbecedario. Queste immagini si rapportano direttamente con le parole, che della lingua sono la forma e ne costituiscono la struttura al tempo stesso.

Abbecedario, Chiesa di San Gregorio; Sacile

Per meglio capire ciò che intendo è necessario distinguere tre aspetti:

1) IL GENERE FOTOGRAFICO
2) ALFABETO SCRITTURA E LINGUAGGIO
3) L’ARCHIVIO E IL COLLEZIONISMO

1)
Questo progetto pluriennale di Guido è stato descritto come una moderna interpretazione della più classica Natura Morta; questo si rifà a una lettura puramente stilistica delle immagini, derivata dall’Arte. Guido, credo, si riconoscesse in questa definizione, lui era un amante della Bellezza e nelle sue composizioni si può ritrovare anche una certa sinestesia, una forma di sensibilità superiore che unisce i diversi sensi, soprattutto nell’accostare colori e oggetti ascrivibili a quel determinato insieme.

Calendario Ceramica Dolomite 1989: febbraio, B.

Ma le sue, ammesso che lo siano, Nature Morte sono realmente …morte? Si dice che gli oggetti siano inanimati, cioè senza anima; ma gli oggetti di Guido l’anima ce l’hanno: ogni oggetto collezionato rivela l’anima del suo collezionista, se poi, questi oggetti, il collezionista li fotografa allora la loro anima diventa addirittura svelata, privata dei veli dell’apparire che la dissimulano, e acquistano un nuovo posto e un nuovo ordine nel mondo, direi quasi una nuova vita, come dirò poi. Perché fotografare è anche possedere.
Persino in tempi di rigore scientifico postilluminista, si credeva che la fotografia avesse la capacità di svelare l’anima della persona fotografata e c’erano fior di studiosi che teorizzavano (ora metteremmo queste affermazioni tra le cialtronerie, le credenze popolari e le pseudo-scienze, come la lettura della mano fondata sulla interpretazione di segni anatomici) come la nostra immagine fosse fatta da veli verosimiglianti e sovrapposti, come la buccia di una cipolla, e che la fotografia avesse la proprietà di prelevarli; fino all’ultimo che era, appunto, l’anima. Alcuni studi sociologici hanno dimostrato come questa credenza sia ancora viva in alcune popolazioni.

2)
Riunire oggetti in un nuovo insieme, abbiamo detto, significa riordinarli, ridare loro un nuovo ordine attraverso la loro immagine, quella fotografica nel mondo di Guido: gli oggetti vengono cioè risemantizzati. Ad esempio, in quasi tutte le tavole, alle quali corrisponde una lettera dell’alfabeto, sono presenti delle spille, dei tappi o delle figurine (Adam in A, la figurina Brigitte Bardot in B, e così via) ordinate in base a quanto c’è stampato sopra o a cosa/chi rappresentano, e non in base all’oggetto in sé (figurina, tappo o spilla) come per altri oggetti. L’ultima volta che vidi Guido, una decina di giorni prima della sua partenza, era intento a comporre una tavola per quel nuovo calendario che non avrebbe più portato a termine e stava rovistando tra scatole con migliaia di oggetti, ordinati per colore, alla ricerca di quelli che non erano mai comparsi, che non erano mai stati fotografati, nelle edizioni precedenti: un lavoro disumano.

Quella di ordinare, classificare, catalogare, e dare un nome alle cose è la principale e più creativa attività compiuta dal cervello umano; non esiste cosa, o concetto, che l’uomo non abbia avuto la necessità di identificare attraverso un segno/parola: senza un nome che la identifichi non sarebbe possibile definire e comunicare la sua esistenza, quella cosa non esisterebbe.
Ferdinand de Saussure, padre dello Stutturalismo (la scienza che si propone di dare rigore scientifico, darwiniano potremmo dire, anche alle Scienze Umane che ora distinguiamo in Antropologia, Sociologia, Psicologia, Filologia ecc.) oltre un secolo fa sosteneva che la principale attività umana, quella che ci distingue dagli altri animali e che ha dato impulso alla nostra evoluzione rispetto ad essi, è quella di comunicare, soprattutto di comunicare attraverso segni, (Semiologia) e afferma che «La parola è segno»;  Jerome Bruner, padre della Psicologia Sociale, ha completato la definizione affermando che «la parola è il segno che dà forma al Pensiero», cioè che traduce il pensiero stesso in immagini. Quando rivendichiamo di avere immaginazione non è forse questo il modo di precisare l’abilità del nostro pensiero di esplicitarsi attraverso forme?
Niente di nuovo, dato che già Aristotele aveva scritto che «ciò che distingue l’uomo dagli animali è la Parola» (accidenti ad Aristotele, che con questo brano ha invaso il mio esame di maturità nel 1978). Aristotele non usa esattamente il termine parola come lo intendiamo noi: il termine greco utilizzato è Logos, che ha il doppio significato sia di Pensiero che di Parola: potremmo tradurre correttamente Aristotele con «ciò che distingue l’uomo dagli animali è la capacità di trans-formare il pensiero in parola».

(Pensieri e Parole… Guido, se fosse qui, avrebbe fatto una battuta spiritosa tirando in ballo Lucio Battisti.)

Guido Cecere con Martin Parr

Trasformare il pensiero in segno (parola) è il supremo atto creativo dell’uomo. Ciò che lo avvicina, che lo rende simile, a Dio. Anzi, questa è proprio la descrizione dell’Essenza divina: «En arché èn o Lògos, kai Logos èn pros ton Theon, kai Theos èn o Lògos» (In principio c’era il Logos, e il Logos era presso Dio, quindi il Logos era Dio); Dio crea le cose dal suo Pensiero mediante l’atto di dare loro un nome (Prologo al Vangelo di Giovanni).
Dare ordine alle cose attraverso la Parola, e l’Alfabeto è il codice che sta alla base della formazione della parola scritta, è l’atto creativo dell’Artista contemporaneo, è la base di quella che chiamiamo Arte Concettuale. La Fotografia è, per la sua natura meccanica, figurativa; ma l’operazione di Guido entra pienamente nel campo dell’Arte Concettuale.

3)
Joan Fontcuberta, a mio avviso, sta ai fotografi come Brunelleschi sta ai maestri medievali; da fotografo è prima di tutto un intellettuale, non un artigiano, ed il primo ad aver capito che la cosiddetta rivoluzione digitale non sta nella macchina e nel sensore, ma nelle nuove modalità di diffusione dell’immagine fotografica: Internet.

In internet l’immagine fotografica ha una durata limitata, un post dura solo 15 secondi su Instagram. Questo carattere effimero della singola immagine è però compensato dalla grande quantità, milioni, di immagini che vengono condivise ogni minuto. Perciò ogni singola immagine viene a perdere il suo significato individuale per diventare parte di una rappresentazione collettiva della nostra società, come fosse un anonimo pezzo di un colossale puzzle. Penelope Umbrico, artista americana, ha prodotto una colossale immagine di un tramonto formata da migliaia di foto di tramonti scaricati da Flikr.

Penelope Umbrico, “Sunset”

Fontcuberta definisce Postfotografia questa pratica dei raccoglitori di immagini. «In una fase di saturazione delle immagini — scrive — l’enfasi si rivolge verso la serie e la collezione». Pian piano, seguendo le sue parole scritte nel 2015, ci sta avvicinando alla piena comprensione dell’Opera di Guido portata in questa mostra da oggi: «La pratica del collezionare — collezionare foto o oggetti da fotografare equivale a possedere due volte — ci porta verso un’idea che genera lavori sempre più concettuali e meno retinici (…) ma soprattutto ci porta ad affrontare l’immagine non tanto come Parola, quanto come Testo (…) e questo impulso di accumulazione è proprio del postfotografico».

Collezionare è dare nuovo ordine alle cose dicevamo: Borges, citato da Fontcuberta, narra di un’enciclopedia cinese che s’intitola «Emporio celeste di conoscimenti benevoli» in cui gli animali sono ordinati in: «(a) appartenenti all’Imperatore, (b) imbalsamati, (c) ammaestrati, (d) lattonzoli, (e) sirene, (f) favolosi, (g) cani randagi, (h) inclusi in questa classificazione, (i) che s’agitano come pazzi, (j) innumerevoli, (k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello, (1) eccetera, (m) che hanno rotto il vaso, (n) che da lontano sembrano mosche». E Michel Foucault fa subito notare che questa classificazione frutto di fantasia dello scrittore cambia la percezione del mondo. Guido ha creato un nuovo universo in queste tavole fotografiche composte da oggetti ordinati secondo il suo ordine alfabetico.

Fontcuberta, senza averlo conosciuto, ci fa conoscere Guido nel modo più intimo, e lascio perciò a lui le ultime parole di questa presentazione alla mostra: «Il collezionista aspira, alla fine, a spiegare se stesso attraverso un sistema coeso che dia senso alla sua esistenza: baluardo contro la mortalità – non sono nature morte dicevo – mondo curato pieno di ordine e significato, dove tutto ha un suo posto e tutto parla di bellezza. Cosmi che ci sopravvivano, corpus che ci dicano IO SONO QUESTO. La collezione appare come un lascito personale e quindi come un’estensione dell’identità che vada oltre la nostra scomparsa. La collezione è un’Opera».