Testo di presentazione alla mostra di IVANO ZANCHETTA

Mostra di IVANO ZANCHETTA Seggiolini volanti, tra Sogno e Memoria; Treviso, Spazio 5. 6 Aprile 2024.

[nota] Ringrazio Ivano Zanchetta per avermi chiamato a parlare del suo lavoro davanti a un pubblico di amici e persone preparate che di fotografia ne sanno più di me; non sono un critico, perciò considerate questa mia introduzione come semplice desiderio di condividere qualche pensiero tra amici.


Chissà come guarderemmo il mondo se non esistesse la fotografia; per l’età che ho, e forse perché l’ho raggiunta, posso dire che dopo l’avvento di internet io stesso lo guardo in modo diverso. …Non ci credete? Tutti oggi guardiamo i tramonti in modo diverso da quando abbiamo uno smartphone …semplicemente perché ora li fotografiamo; tutto ciò che guardiamo, lo vediamo attraverso il filtro di una cultura che ci ha spinto a vederlo in un modo piuttosto che in un altro.

Platone sosteneva che la scrittura aveva portato alla perdita della Memoria, intesa come sapere collettivo, perché rispetto alla tradizione orale la funzione di ricordare il passato veniva demandata a un medium: la scrittura, appunto. Che direbbe oggi il caro Platone accorgendosi che l’immagine fotografica è il medium prevalente nella nostra società, quella che giustamente definiamo società dell’immagine? Per noi l’accettazione della Fotografia anche come documento è un fatto acquisito, anzi è la testimonianza che un fotografo dotato di macchina fotografica si è trovato in un certo luogo in un determinato momento.
Ma Platone forse non aveva considerato abbastanza il fatto che la tradizione orale ha sempre proiettato la memoria di fatti realmente o storicamente accaduti nella sfera del Mito, il quale con la realtà aveva ben poco da condividere; di conseguenza, se lo scopo del mito è quello di creare immagini, cioè di stimolare l’immaginazione, riusciamo a comprendere perché Platone considerasse le immagini, quelle artistiche comprese, doppiamente false; come dargli torto, sapendo che le rappresentazioni pittoriche nel mondo greco riguardavano prevalentemente gesta epiche e le immagini artistiche erano considerate alla stregua dei simboli – il mito infatti è costituito da eventi simbolici – o meglio ancora, alla stregua di Idoli (èidolon): niente a che vedere con il legame meccanico col reale e con l’hic et nunc della Fotografia.

Ivano Zanchetta e il sottoscritto all’inaugurazione della mostra

Dove riusciamo a trovare oggi la memoria? E, allora, le immagini del – o dal – nostro passato? Questa strada ci è stata indicata da Freud due millenni più tardi: le immagini della memoria si sedimentano nel nostro inconscio ed emergono nella dimensione onirica del Sogno, come ben sanno gli artisti Surrealisti. Questa latenza della memoria nell’inconscio assume sfumature diverse quando si passa dalla pittura alla Fotografia perché coinvolge un apparato meccanico che non è neutro rispetto alla nostra visione: Walter Benjamin ha chiamato Inconscio otticoLa capacità della macchina fotografica di registrare elementi che il fotografo non ha visto”, come dirò alla fine.

Perciò quando solitamente guardiamo un’immagine ci viene naturale chiederci “cosa rappresenta” e “qual è il soggetto di questa foto” dovremmo chiederci invece chi è il fotografo.

Davanti a queste immagini di Ivano Zanchetta, apparentemente, non serve interrogarci: siamo dentro dei Luna Park e i soggetti principali sono le giostre. Facile.

Ma non è così che funziona in fotografia, se ci limitiamo a questa superficiale osservazione saremo completamente fuori strada, ed è il motivo per cui continuo a ripetere ai miei studenti che, nel secolo che ha moltiplicato le immagini (foto, cinema, tv, internet, ecc) non esiste una adeguata educazione alla lettura di queste, non ne comprendiamo la sintassi, siamo inermi davanti ai messaggi che ci vengono propinati.

La fotografia poi, sembra così semplice da comprendere: “è rappresentato ciò che si vede e ciò che si vede è anche il soggetto”.

Non è così; non vale la stessa logica delle altre arti figurative (pittura e disegno): dobbiamo essere consapevoli, e in questo i fotografi spesso sono refrattari, che “la foto LA FA la macchina”. Questa frase, che si deve attribuire almeno ad Ando Gilardi oltre 30 anni fa, mi fa spesso litigare con gli amici fotografi, perché sembra che questo oggetto sminuisca la creatività del fotografo: ma non è mai così! La macchina (qualsiasi macchina) è fatta per aiutare, non per sminuire; certo però, dobbiamo sapere che, nel farlo, ci mette anche del suo, o meglio ci inserisce tutto quel sapere insito nei meccanismi progettati da ingegneri, informatici, sociologi ecc.

Allora immaginiamo di avere in mano questo oggetto, la macchina fotografica; ci troviamo di fronte ad una scelta: cosa fotografo? E come lo fotografo? Proviamo a declinare la risposta:

IO (soggetto) FOTOGRAFO (predicato verbale) CIO’ (complemento oggetto).

La frase è completa e ha senso: Il soggetto è il fotografo! L’azione del fotografare la compie la macchina (senza la quale la foto non sarebbe possibile) e quanto sta dentro l’immagine è il complemento oggetto che dà il senso compiuto alla frase… ma che ci racconta molto del soggetto/fotografo. (Vado allo stadio / vado a teatro).

«La fotografia contribuisce in modo significativo al nostro senso di conoscenza, percezione ed esperienza, e a trasformare il modo di porci in relazione con la storia e, per estensione, con il senso di noi stessi» ha scritto recentemente Liz Wells in una sua ricerca sulla Fotografia di Paesaggio (Land Matters, 2011)

Ognuna di questa fotografie perciò ci parla di Ivano Zanchetta e tutte insieme ci portano alla sua infanzia.

Non so come fosse il luogo dove è nato, ma immagino Ivano Zanchetta andare a scuola la mattina con la cartella sulle spalle o attraversare la piazza o il sagrato per la messa della domenica mattina, e dalla bassa prospettiva di bambino guardare con occhi di desiderio le giostre fasciate dai teloni, lui ben sveglio e loro addormentate; desiderare di poterci tornare la sera, sognarle da sveglio mentre danzano piene di luci colorate, che sembrano le Gemelle Kessler a Canzonissima, e cantano la musica leggera della radio.

Sognarle e basta! Perché nel produttivo Nordest le giostre sono la perdizione per un bambino, come lo è il Paese dei Balocchi per Pinocchio, secondo il pensiero essenziale, utilitarista, del mondo contadino veneto: “le giostre sono soldi sprecati, rubati al lavoro dei campi, servono per la casa, per il trattore… per il piacere di un bambino non ci sono soldi”.

Gli adulti dovrebbero sapere che un bambino non può capire le priorità dei grandi, perché adulto non lo è mai stato; ma loro sono già stati bambini e dovrebbero ricordarselo. Dovrebbero ricordarsi che certe frustrazioni covano nel nostro inconscio.

Ecco allora che questa immagini, il complemento oggetto del medium fotografico, ci parlano del soggetto/fotografo Ivano Zanchetta; attraverso la sedimentata frustrazione di un bambino deluso, ci raccontano anche di una società legata alla terra e al lavoro prima, e alla fabbrichetta poi, mentalità che è propria delle nostre zone a cavallo del Piave, che è comune all’infanzia di molti di noi (anche della mia) che emerge dal nostro inconscio svelandoci quella metafisica del reale, cioè quel flusso di immagini sottratte e poi isolate dallo scorrere convenzionale del quotidiano e dal pozzo del ricordo. Il nocciolo metafisico di queste immagini sta proprio in questo: mostrarci ciò che conoscevamo in un modo straniato, come se lo vedessimo per la prima volta.

Ma c’è un altro aspetto fondamentale della Fotografia che Ivano ha coinvolto consapevolmente, anche se apparentemente risulta secondario: la scelta di mostrarci l’oggetto dei suoi sogni, le giostre, mentre dormono, con le loro coperte, di giorno… e mentre sono sveglie, animate, la notte. La grafia delle scie generate dal mosso delle luci, riprese con esposizioni lunghe, smaterializza gli oggetti del desiderio, li proietta ancor di più dentro la dimensione onirica e questo è simbolicamente l’aspetto più evidente: ma non il più importante per quanto riguarda il medium fotografico. Cioè torniamo sull’importanza del predicato verbale, sul principio che “la foto LA FA la macchina”. La macchina, per la sua natura meccanica, ci mostra quelle grafie e quelle scie che il nostro occhio non riesce a vedere, che il nostro cervello non riesce neppure a concepire.

Il fotografo che sa dominare la tecnica del mosso tuttalpiù li può immaginare (crearsi una immagine mentale) e sommariamente pre-vedere; ma non saprà mai cosa la macchina ha visto concretamente. Credo che, per quanto volute, cercate e immaginate, queste foto notturne siano state una sorpresa anche per Ivano Zanchetta quando le ha viste fermate nel negativo di grande formato; ma la macchina le aveva viste prima.

La capacità della macchina fotografica di registrare elementi che il fotografo non ha visto, di mostrare le cose come non le abbiamo notate nel mirino, è quello che Walter Benjamin ha chiamato, dalla parte dell’occhio, inconscio ottico; e Franco Vaccari, passando dalla parte del meccanismo, inconscio tecnologico. È quell’azione del vedere, il predicato del verbo vedere, che demandiamo alla macchina, senza la quale non saremmo qui ad ammirare queste immagini.