Ahh… la Luna; quante immagini ha evocato nelle parole di poeti e musicisti?
Chissà quando arriveremo finalmente ad accettare che una fotografia “funziona come” …una fotografia; sembra paradossale, ma questo ancora non succede.
Se visitate una mostra di fotografie e ciò, grazie ai numi, succede sempre più spesso avvicinando molti appassionati, le troverete appese ben incorniciate e illuminate come se fossero quadri; non che in questo ci sia qualcosa di male, anzi è bene che vengano valorizzate, ma basterebbe questa banale osservazione per dire che “funzionano come quadri” agli occhi non solo di chi le osserva ma spesso anche – e qui ci sarebbe ancora da eccepire – nelle parole di chi le descrive criticamente nelle presentazioni dei cataloghi.
La composizione, le linee portanti, il contrasto delle luci, la proporzione tra le parti… e infine le emozioni che sanno suscitare, questi sono tutti fattori che vengono sottolineati nelle descrizioni e che guidano il godimento estetico anche delle immagini fotografiche. Ma tutti questi fattori, appunto, appartengono alla pittura e derivano dall’analisi di essa: questi fattori impostano e guidano la mano del pittore in favore di una più corretta interpretazione della sua opera; per dirla in termini semiotici, quelli che ho definito fattori sono codici funzionali alla comprensione del messaggio e fanno sì che ogni elaborazione segnica prodotta dal cervello venga definita icona.
La fotografia, invece, non appartiene alla categoria delle icone perché è prelevata direttamente dalla realtà da una macchina che, non essendo dotata di pensiero, non è in grado di elaborare ciò che vede, non lo struttura secondo codici: contrasto, illuminazione ecc. appartengono alla realtà contingente nel momento in cui l’immagine fotografica viene prelevata. È importante riconoscere che se in una data immagine fotografica rileviamo i fattori, i codici, propri della pittura sopra descritti è solo perché il nostro cervello, quello dell’osservatore, segue principi connaturati del nostro sistema percettivo che la psicologia ha definito col termine Gestalt; insomma questi codici li attribuiamo noi successivamente, portandoci a prediligere una data immagine fotografica rispetto ad un’altra, a conferirle un certo valore estetico sulla base del nostro gusto e non del suo valore intrinseco, ma sono fattori che nulla hanno a che fare con la fotografia in quanto impronta della realtà, cioè come indice.

Per chiarire. uso l’esempio fatto dai semiologi: immaginate di vedere un dipinto del mio piede: questa è una icona che racchiude in se il concetto stesso di piede; ora invece immaginate l’impronta del mio piede lasciata sulla sabbia: sarà diversa da quella lasciata da qualsiasi altro piede, sarà riconducibile unicamente a me, indica me, perciò viene definita indice.
Insomma, questa intrusa nel campo della comunicazione che è la fotografia ha fatto uscire di testa i filosofi, a partire da Benjamin, e tutti quelli che dopo di lui si sono specializzati nello studio dei linguaggi – i semiologi appunto – perché è innegabile che anche la fotografia, pur venendo generata in assenza di codice come avviene per le icone, possa essere portatrice di un messaggio. Allora la fotografia è una eccezione, riassume Roland Barthes: la fotografia è un «messaggio senza codice» è costretto ad ammettere; e dopo di lui anche Umberto Eco deve inseguire dicendo che «la fotografia è un indice, ma funziona come una icona».
I filosofi in questo caso sono stati vittima della loro logica ferrea, del loro stesso pragmatismo: la fotografia è la figlia degenere del linguaggio, quella ribelle al confronto delle sorelle pittura, scrittura, musica… neppure degna di essere accolta nella famiglia delle sette1 belle arti (che poi sono diventate otto col fumetto, e probabilmente saranno nove con i… videogiochi).
Forse proprio quel “funziona come” avrebbe bisogno di essere ampliato, di essere esteso anche alle altre forme di comunicazione che coinvolgono le relazioni umane. Intendo dire che non è solo la fotografia a funzionare come la pittura, anche altri linguaggi possono «funzionare come», soprattutto nella nostra epoca in cui le forme di relazione e di comunicazione si sono enormemente allargate; lo studio di queste modalità ampliate potrebbe persino aiutare a comprendere il funzionamento della fotografia e spingere a superare il pragmatismo dei semiologi.

La fotografia implica la presenza hic et nunc della macchina fotografica al momento del prelievo che Barthes intuisce attribuendole la funzione di attestazione nel «ça a été» (ciò è stato); Barthes attratto, quasi estasiato, dalla funzione certificatrice della macchina – pensiamo al contributo che la fotografia ha dato allo studio della storia moderna, o al suo utilizzo documentario nei rilievi e perizie legali – però sottovaluta l’importanza dell’operatore, del soggetto agente sulla macchina stessa (che, beninteso, potrebbe anche essere del tutto assente in tale certificazione, come nelle immagini scattate dagli autovelox) mentre questo soggetto, il fotografo, è assolutamente indispensabile nel momento in cui attribuiamo a quel «funziona come» un compito di sostituzione, la missione di farsi lui portatore di quel codice che la macchina non conferisce.
Non necessariamente il fotografo deve usare i codici derivati dalla pittura, la presenza stessa della macchina impone codici propri, autonomi per la fotografia; confesso che trovo immensamente stucchevoli la maggior parte delle fotografie artistiche che seguono i valori compositivi della pittura o che ricorrono agli interventi manuali per sottolineare la autorialità; non mi spingo poi nel giudizio di bellezza, chi mi conosce sa come la penso.
A mio avviso, e senza presunzione essendo il mio il punto di vista del fotografo che aspira ad essere consapevole del medium utilizzato e non quello del filosofo linguista, il limite di Barthes è stato quello di soffermarsi sull’importanza del «ça a été» evitando di fare un passettino verso il «J’ai été» (Io sono stato), cioè verso colui che ha pigiato quel maledetto pulsante che ha azionato la macchina, cioè verso colui che, in presenza, si è sostituito all’osservatore che poi guarderà l’immagine. Inoltre, con tale definizione, non viene considerata la minima possibilità che la fotografia possa essere portatrice di una valenza artistica, ma solamente di quella pratica, escludendola di fatto dal campo dell’estetica.2
È grazie al fotografo se l’immagine fotografica «funziona come» una icona.

La questione della sostituzione è fondamentale, e può essere compresa seguendo l’esempio che sto per fare: quante volte vi è capitato di dire a una persona che sta per recarsi a un incontro in cui sarà presente un vostro conoscente «quando incontri Tizio, salutalo da parte mia»: eppure di Tizio coi avete la email, il numero di telefono e forse ci massaggiate abitualmente con Whatsapp, potreste salutarlo ogni volta che ne sentite il desiderio anche a voce, ma non in presenza; ecco, quella persona quando incontrerà Tizio e gli dirà «Caio mi ha detto di salutarti» si sostituirà a voi, conferirà un codice a un messaggio che gli avrete affidato voi: funzionerà come voi.
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1 pittura, scultura, architettura, musica, letteratura e poesia, danza, teatro e cinema.
2 Claudio Marra, Dall’artistico all’estetico, in Forse in una fotografia, teorie e pratiche fino al digitale; Clueb, 2002.
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