CARLO GIOVETTI, fotografo per passione

Sono appena passati due anni dall’inaugurazione della mostra su Carlo Giovetti. E ora manca Guido.

A seguito della brusca accelerata dell’Amministrazione Comunale in merito alla realizzazione dell’iniziativa che si sarebbe poi tenuta nella splendida sede della Galleria Bertoia a Pordenone, Roberto Giovetti – nipote e custode dell’archivio fotografico dello zio Carlo – mi volle al suo fianco come curatore, insieme a Guido Cecere; è stata quella la prima volta in cui ho avuto modo, per qualche mese, di stare al fianco di Guido; ci conoscevamo solo di vista, ma ne è nato subito un grande rapporto di stima e di amicizia. Ho capito il motivo per cui Roberto mi aveva inserito nello staff: Guido aveva una personalità molto forte e Roberto, di riflesso, a volte cocciuta. Mi sono trovato spesso a mediare tra le visioni opposte di questi due caratteri forti, a imporre il mio pragmatismo sul loro idealismo. È stata una esperienza che ha rinsaldato ancor di più la nostra amicizia. L’inatteso e meritato successo della mostra è stato il nostro premio.

Guido Cecere, Roberto Giovetti e io; selfie alla chiusura della mostra.

Il mio ruolo operativo è consistito nell’editing digitale delle scansioni fotografiche al fine di renderle idonee agli ingrandimenti della mostra e all’inserimento nel catalogo; di questo ho curato il layout grafico e l’impaginazione determinando di fatto, seguendo l’ordine delle foto in catalogo, le tre sezioni della mostra.

Ho anche effettuato la ricerca, nell’emeroteca della Biblioteca Sormani di Milano, di parte degli articoli scritti e pubblicati su Il Giorno da Carlo Giovetti in concomitanza degli avvenimenti di cui aveva scattato le fotografie: mi interessava capire il motivo che lo spingeva a cogliere, privatamente con la macchina fotografica, i momenti e le relazioni umane di cui scriveva pubblicamente.

Per il catalogo, ho scritto questa breve introduzione critica – non firmata – alla ristampa del celebre articolo su Tempo per la morte di Luigi Tenco che prelude alla sequenza delle fotografie pubblicate.

Io con Guido Cecere, Bobby Solo, ospite di un evento correlato alla mostra, e Roberto Giovetti

 

La macchina per scrivere e la macchina per fotografare

Dal suo archivio fotografico privato affiora lo sguardo di un Giovetti inedito, ma che non può essere disgiunto dalla sua attività giornalistica. Personaggio molto colto e di gusti raffinati, come è già stato sottolineato, eppure intinge la penna in argomenti che oggigiorno molti intellettuali considerano “leggeri”, secondari e frivoli, quelli che finiscono nella sezione “Cultura e Spettacoli”; al pari di altre grandi “firme”, come Gianni Brera collega a Il Giorno per quanto riguarda lo sport, è invece un profondo narratore della società di quegli anni.

Ciò che emerge dai suoi articoli è la consapevolezza di contribuire, forse in modo ancora più efficace dei colleghi che si occupano di politica e di vita economica, al racconto di un’Italia che esce rinnovata dagli anni postbellici, di un Paese che sta vivendo il miracolo del “Boom” e che cerca, in “chi ce l’ha fatta” tra i ranghi della piccola borghesia e della nascente classe operaia, il mito di un successo a portata di mano (gli articoli su Massimo Ranieri “figlio di operai”, vincitore al Cantagiro del ’67 sono indicativi).

Giovetti testimonia dall’interno il “miracolo italiano”, e subito ne registra le conseguenze: l’Italia esporta l’immagine di un Paese operoso e creativo, genuino e un po’ naif, che subito viene contaminato dalla struttura dello “star system” di tipo anglosassone, dal modello “beat generation” che lui stesso sembra rinunciare a capire, fino a rifiutarlo all’avvento del Rock.

È quindi un’Italia “pop” quella che viene descritta nei suoi articoli: le sue foto integrano la descrizione di un Paese “reale” che, in sedi diverse da questa, ha impegnato non poco sociologi e analisti, troppo spesso però impegnati a occuparsi di argomenti di natura più “alta” rispetto alle “canzonette” e al cinema. Esse sono pertanto, anche nelle intenzioni del sottotitolo di questa inedita mostra, l’invito a una rilettura sociologica più ampia di quegli anni, più vicina ai sogni della gente comune.

Un contributo scritto che analizzasse i costumi della società italiana attraverso le immagini che Giovetti ci ha tramandato avrebbe integrato l’interpretazione critica della sua attività anche di giornalista, ma tolto spessore alla originalità delle sue fotografie, vero argomento di questa mostra; perciò abbiamo scelto di lasciar scrivere Carlo Giovetti stesso, riproponendo – quasi fosse un breve saggio postumo – questo articolo che rivela la sua grande capacità di lettura delle trasformazioni in atto in quegli anni.