DOPPIO, CAPOVOLTO, AMBIGUO

Pordenone, Cotonificio Veneziano, 17 maggio 2016. Serie: Up & Under.

 

Man Ray parlava di fautographie e poco più tardi Moholy-Nagy sottolineava come, dall’invenzione della fotografia, non sia stato scoperto nulla di essenzialmente nuovo dal punto di vista della tecnica e del procedimento, motivo per cui gli errori sono essenzialmente gli stessi, dovuti sia al procedimento meccanico che all’imperizia. Chéroux sostiene che «nelle sue ombre, nei suoi scatti errati, nei suoi accidenti e nei suoi lapsus che la fotografia si svela e meglio si lascia analizzare; scommette insomma sull’errore fotografico come strumento cognitivo».

Con la mia vecchia OM1, usurata nei meccanismi di trascinamento della pellicola, le doppie esposizioni accidentali erano all’ordine del giorno: si trattava di un errore dovuto alla natura meccanica del mezzo, non progettato; ciononostante, devo ammettere che il risultato prodotto dal caso non sia stato privo di fascino, pertanto mi son trovato a riflettere su quanto avevo letto circa l’errore fotografico, ammissibile per definizione dalla natura meccanica del mezzo – errore non prevedibile anche se preventivabile con una certa tolleranza – e che dovrebbe essere uno degli aspetti distintivi e propri della fotografia rispetto agli altri linguaggi espressivi.

In cosa consiste allora il fascino per quelle foto sbagliate? È il sapore vintage per una immagine caratterizzata dall’errore che prevale sul banale senso di perfezione, o meglio di riduzione del margine di errore, proprio della fotografia digitale. La nostalgia per i viraggi, le bruciature, i graffi e per tutti gli altri incidenti che spesso capitavano alla pellicola ha fatto la fortuna di Instagram e dei suoi filtri retrò a livello di massa, ma anche di filtri e plug-in tanto cari ai fotografi matrimonialisti che fanno largo uso di Photoshop.

Vedendo tutti questi filtri ed effetti, verrebbe da dire che la perfezione tecnica della fotografia digitale, e la facilità con cui si perviene a tale perfezione, ha spostato in avanti l’asticella dell’errore fotografico inteso ora come unico margine concesso alla creatività, tanto da produrre surrogati tecnologici in grado di storpiare files fotografici più o meno impeccabili: l’errore non solo diventa lecito, ma anche ricercato come esteticamente dissociato dalla banalità della raffigurazione, così diffuso da essere già diventato banale esso stesso. Non se ne può più di Retrica e di artefatti del genere.

L’errore, quello meccanico, non quello finto elettronico, è così beneaccetto e genuino in quanto unico, è un errore che Photoshop e Instagram non sarebbero in grado di riprodurre o generare, se non con un lavoro complesso che sfugge ai tempi produttivi di un fotoamatore e anche di un matrimonialista.

«Questa è una delle ragioni per cui alcuni cineasti hanno deliberatamente provato a imitare la grossolanità dei video fatti in casa. (…) Ciò riconcilia l’immediatezza che è richiesta per queste tecniche (…) Enfatizzare il medium è considerato di solito come un modo per distanziare i fruitori dal mondo rappresentato. In questo caso ha l’effetto opposto».(in Immagini trasparenti: la natura del realismo fotografico, Kendall L. Walton)

La grossolanità dei video fatti in casa citata da Walton può essere bene associata al fenomeno Instagram: ci sono gruppi di condivisione che fanno tendenza, spesso vantano il sospetto di proporsi come autentici circoli culturali: gli instagrammers, o igers, sono i nuovi intellettuali della fotografia.

Castello Gewerkenegg, Idrija (Slovenia), 18 aprile 2016. Serie: Up & Under.

L’enfatizzazione del medium ha effettivamente sortito l’effetto opposto: quello di avvicinare, attraverso l’immediatezza della tecnica fotografica basata neanche più sulla fotocamera, bensì sul proprio telefono dotato di sensore, il mondo dei fruitori al mondo rappresentato. La distorsione concettuale però è molto sottile; i fruitori hanno un ruolo duplice, narcisistico in senso psicologico: sono essi stessi esecutori e al tempo stesso osservatori, l’origine della ragion d’essere di una immagine coincide con la sua destinazione, l’emittente coincide col ricevente. In questo processo tautologico l’agnello sacrificale è proprio l’oggetto dell’immagine, o meglio il soggetto: il mondo rappresentato.

La grossolanità che dovrebbe essere indice di immediatezza è diventata artificio: l’errore è divenuto regola: i filtri di Instagram producono falsi errori ben studiati e calibrati sul gusto popolare, viraggi sofisticatissimi dei colori come quelli generati da una temperatura non corretta del bagno di sviluppo delle vecchie pellicole. L’avvicinamento al mondo rappresentato si traduce in un sempre maggior allontanamento dal campo del reale che, in ultima istanza, mette in discussione la stessa esistenza dell’immagine fotografica.

Sento spesso dire che per colpa di internet non si vedono più in circolazione buone fotografie; credo che il problema sia opposto invece: grazie a internet si può accedere molto più facilmente che in passato alla conoscenza di buone immagini, giovani autori propongono visioni che sono possibili solo grazie al digitale, ma queste vengono bruciate in tempi brevissimi, spesso vengono imitate e appaiono in fretta nelle forme di mode passeggere. Si segue un autore che appare originale e ci si entusiasma per le sue foto, salvo poi stancarsi rapidamente dei suoi esercizi di stile. Internet impone che ci sia sempre la novità, che si subentri a se stessi.

Non sono le buone foto che mancano, manca il tempo necessario affinché almeno una di queste possa elevarsi ad icona.

Verso questo mondo virtuale che esalta le immagini perfette, ho cominciato a maturare negli ultimi anni una certa distanza: l’errore potrebbe essere un diversivo, una spiaggia in cui salvarsi, naufragando.

Gli errori, che per definizione sono da evitare, possono essere cercati, addirittura progettati; se l’incapacità di progettare una foto è sempre stato un mio limite – nel fotogiornalismo l’aspetto progettuale è quasi assente – il recupero delle tecniche analogiche mi è stato di grande aiuto nel cominciare a combatterlo.

Esposizioni doppie e multiple si possono realizzare anche con tecniche digitali, sia in fase di ripresa che di postproduzione mediante sovrapposizione di livelli, ma le possibilità di controllo, e di correzione, pressoché totale non può proprio essere chiamata errore. Sarebbe un finto errore perfettamente in linea con quanto ho precedentemente condannato, per quanto suggestive, le foto avrebbero un sapore artificioso.

Le pellicole istantanee invece concedono al progetto della ripresa quel margine di indecisione, e di sorpresa, che solo dopo i canonici 120 secondi si ha modo di verificare; la stessa inquadratura è difficoltosa nel mirino della Land Camera e il principio tecnico di sovrapporre le aree chiare a quelle scure, soprattutto con la macchina capovolta, non assicura sempre il risultato previsto: questo sarà il frutto di una combinazione uomo-macchina.