NUDI MUTI

Negativo instant da Fuji FP100c – Polaroid Land Camera modificata con obiettivo Zeiss
1 – Il Nudo, materia animata silenziosa

Il primo vero nudo femminile, il nudo di una donna e non di una dea, precede di due decenni la nascita della fotografia. Il ritratto in marmo di Paolina Borghese Bonaparte, di Canova, per quanto ammantato di riferimenti classici (come Venere vincitrice) è il primo nudo moderno perché segna il definitivo trasferimento dell’ideale di bellezza antico, la virtus, dal corpo maschile al corpo femminile, portatore di piacere.
È bello ciò che piace.
La neonata fotografia si è subito gettata su questo tema della rappresentazione, se non altro per soddisfare i pruriti voyeristici della nuova classe borghese, più concreta anche nel soddisfare i propri piaceri rispetto alla vecchia aristocrazia che si mascherava dietro alle Veneri nude.

Da allora è prevalso il luogo comune che in fotografia il nudo femminile debba esaltare il moderno ideale astratto di Bellezza. Sappiamo che in Arte non è così: Paolina è il punto di arrivo di un percorso iniziato nelle corti medievali, con le cortigiane e con l’ideale di Amor Cortese, e non il punto di partenza. Dopo Paolina, la donna e il suo corpo diventeranno sempre meno idealizzati e sempre più demoniaci, motivo di perdizione e di dannazione per l’uomo nelle Avanguardie del Novecento.

È almeno un secolo che la donna nell’Arte non è più rappresentativa della Bellezza.

Nelle fotografie dei Maestri di quest’epoca, sebbene siano spesso presenti riferimenti pittorici come in Drtikol, non ho trovato mai aspetti che riguardino la rappresentazione dell’ideale di bellezza declinato al femminile: questo piuttosto è un atteggiamento che nasce come conseguenza della fotografia di moda che, con lo sviluppo dell’editoria specifica, attribuisce un ruolo diverso alla modella.
Fino agli anni Trenta del secolo scorso, la modella, per gli artisti e per i fotografi, era prima di tutto una Musa ispiratrice che prestava alla causa artistica non solo le forme del proprio corpo, ma anche il proprio contributo intellettuale in una forma di complessa complicità.
La fotografia fashion e glamour degli ultimi decenni, invece, ha ridotto il corpo femminile a oggetto più che a soggetto, tant’è che la bellezza di una foto sempre più spesso si identifica con la bellezza, o con il fascino, della modella stessa: se una modella non ha sufficiente fascino per dare qualità alla foto, si ricorre all’aggiunta artificiosa di accessori e ad acconciature ricercate, elaborate dal make-up artist.
Sembra una contraddizione: spogliare un nudo invece è cosa abbastanza difficile.

I miei Nudi Muti non aggiungono nulla a quanto già conosciuto, anzi ripartono da foto già viste di Edward Weston, prima, e di Ruth Bernhard, poi, con l’aggiunta della dimensione del Tempo – che è unità di misura propria del medium fotografico – derivata dalle sperimentazioni Futuriste.
Il corpo è vivo e si muove, compie gesti che scaturiscono dall’intesa e dalla complicità che si instaura, nuovamente, con la musa-soggetto.
Si tratta di nudi nel senso stretto de termine; in questa serie non c’è nulla: non c’è glamour, non c’è bellezza, non c’è piacere, non c’è fashion, non c’è make-up, non c’è ambientazione, non c’è contesto, non ci sono accessori, non c’è allestimento, non c’è postproduzione. Non sono neppure Ritratto.

Sono LUCE e MATERIA ANIMATA, dati in pasto alla macchina fotografica.

Zenza Bronica ETRS medio formato
2 – La Fotografia rappresenta l’invisibile

«È nelle sue ombre, nei suoi scatti errati, nei suoi accidenti e nei suoli lapsus che la Fotografia si svela (…) scommettere sull’errore fotografico come strumento cognitivo» (Chéroux).

I corpi animati si muovono: perché congelarli come delle nature morte o come paesaggi? Sia mai che la tanto ricercata autonomia della Fotografia rispetto alla Pittura risieda proprio nella ricerca di quell’errore cognitivo che non può risiedere nei lobi del cervello che muovono la mano che regge il pennello? Il mosso – nel mio caso progettato nel suo ritmico gesto musicale concordato d’intesa con la modella/musa, materia animata – intende restituire al medium fotografico una sua specifica autonomia visiva, capace di costruire una rappresentazione del tutto originale e autonoma, propria del mezzo meccanico. Forse è ciò che Vaccari intende con la definizione di Inconscio Tecnologico.
Alcuni studiosi di Estetica sostengono che la fotografia, diversamente dalla pittura – e anche dal cinema che si basa su un costrutto narrativo – sia incapace di divenire Arte perché, in quanto semplice riproduzione meccanica della Natura, non può costituire una autonoma rappresentazione di questa.
L’argomento è stato così posto ancora da Baudelaire all’amico Nadar – al quale pure doveva parte del suo sostegno economico – e l’esemplificazione relativa ai Cavalli al galoppo dipinti da Gericault è stata “cavalcata” a lungo, anche da altri detrattori della Fotografia intesa come arte; persino dagli stessi Futuristi, attaccati alle tecniche tradizionali. Questo pregiudizio nasce dal luogo comune secondo il quale il compito della Fotografia è quello di cogliere l’attimo, di fermare il tempo, di mostrare l’Istante Decisivo, come lo chiama Cartier Bresson. Ma qual è l’Istante Decisivo? Sta sempre al fotografo definirlo …e anche un po’ alla fortuna, al caso.
Il concetto di Istante Decisivo – ora tanto caro alla street photography – è conseguenza dell’innovazione tecnologica che ha consentito tempi di ripresa molto veloci, fino all’ordine dei millesimi di secondo, ma non proprio della Fotografia considerato che questa, quando fu inventata, richiedeva tempi di esposizione lunghissimi; ore ai tempi di Daguerre e ancora parecchi secondi solo all’inizio del Novecento.
Se Cartier Bresson fosse nato cinquant’anni prima, col cavolo che avrebbe parlato di Istante Decisivo!

Nella mia serie Nudi Muti preferisco parlare di tempo decisivo: quello necessario affinché si compia il gesto.
Il gesto è sintetizzato, rappresentato, dal mezzo fotografico in un’unica immagine; è una immagine sincronica che il mio occhio non può vedere, perché il cervello registra il gesto in modo diacronico, cronologico. Nel fare questo, il mezzo fotografico manifesta tutta la sua inconsapevole autonomia tecnologica. Scattando con tempi di posa relativamente lunghi – da due a cinque secondi, come ad inizio del XX secolo – il mezzo fotografico vede, e rappresenta, ciò che io non ho visto per due ragioni puramente tecniche, insite nel medium stesso.
La prima, perché durante il tempo di scatto io non posso vedere il gesto neppure nel suo aspetto diacronico: guardando nel pozzetto o nel mirino dell’apparecchio fotografico, il sollevamento dello specchio oscura la mia visione: non so cosa sia successo nel frattempo; non so cosa l’apparecchio abbia visto, al posto mio. Questo primo aspetto dipende dalla natura meccanica dell’apparecchio fotografico.
Il secondo aspetto dipende invece dalla natura chimico-fisica del supporto (la pellicola o il sensore); il supporto registra solo quelle parti di materia animata che la luce ha illuminato sufficientemente nel compiersi dell’atto gestuale: lo sfondo nero svela, quello bianco nasconde.
È la duplice natura del medium fotografico che decide cosa trattenere e cosa tralasciare: restituisce l’immagine che il mio occhio non è stato in grado di vedere e che il mio cervello non è neppure riuscito a pensare.