PAESAGGI DELLA MENTE

Pordenone, Piazza XX Settembre, 02 gennaio 2014.

La definizione di Paesaggio nella fotografia, e nelle arti figurative, credo sia abbastanza ampia per contenere le diverse accezioni che mi trovo a declinare; si va dalle foto che riguardano le architetture inserite nel loro contesto, alle geometrie che le creazioni dell’uomo inseriscono nell’ambiente, alla pura registrazione di forme e colori: gli insegnamenti di Zannier allo IUAV e l’estetica di Haas non si dimenticano.

La differenza tra panorama, veduta e paesaggio è stata ben chiarita da alcuni autori (cfr. Gianfranco Ellero) che hanno studiato a fondo la tradizione della Foto di Paesaggio in Friuli e nella Destra Tagliamento: questa, dopo aver permesso a fotografi come Borghesan, Ciol, lo stesso Zannier di essere riconosciuti universalmente, si è interrotta forse a causa della difesa dei piccoli orticelli conquistati, in un campo, quello dell’immagine, che si avviava sempre più verso la globalizzazione.

Credo che il rigore mi abbia sempre spinto a «cercare nella realtà le inquadrature che già esistono», come ha insegnato Ghirri, che prosegue: «Insomma, la fotografia consiste essenzialmente in due cose: prima di tutto nel riuscire a capire cosa è necessario includere all’interno dell’immagine; il secondo aspetto riguarda il come riuscire a dare a questo ritaglio del mondo esterno una sua valenza comunicativa». Sembra che la fotografia sia solo l’individuazione di quella che il filosofo Friday definisce come una sorta di Cornice Albertiana, una specie di «finestra attraverso cui l’osservatore si affaccia su un mondo finzionale, retorico e simbolico che esaurisce il suo significato all’interno della cornice»; la fotografia di paesaggio più di tutte offre una finestra, una soglia, all’interno della quale si esaurisce la rappresentazione; con queste premesse, si corre sempre il rischio di cadere nel pittoresco, nella ricerca di viste ad effetto; i riferimenti alla visione sintetica dei Macchiaioli, più che a quella analitica degli Impressionisti, sono sempre dietro l’angolo e, negli stereotipi attribuiti alla fotografia, si caricano di pulsioni emozionali che erano estranee a questi artisti.

Ma la fotografia, lo dice il nome stesso, è generata dalla luce: è difficile rinunciare a certe condizioni di luce sul paesaggio, anzi si dovrebbero cercare, o cogliere, anche se ciò comporta di dover accettare il rischio di cadere nel vedutismo della foto da cartolina. Sta più alla cultura del fotografo, credo, che alla sua bravura tecnica, la capacità di starne fuori.

Pordenone, Parcheggio Marcolin durante l’esondazione del Noncello, 12 novembre 2012.

Così come bisogna rinunciare anche alla pretesa di fare qualcosa di nuovo; credo che in fotografia si sia ormai sperimentato tutto quanto concesso dai limiti della registrazione meccanica dello sguardo.

Persino le recenti definizioni di Funzione Protesica (Foster) e di Inconscio Tecnologico (Vaccari) erano insite nella fotografia ben prima che questi concetti fossero circoscritti esteticamente: Nièpce e Talbot volevano creare uno strumento utile alla ricerca medica (Arago poi decise di estendere a tutti la scoperta), e i fratelli Bragaglia utilizzarono la fotografia per rappresentare il gesto nel suo insieme, non certo l’attimo. Nel rinunciare a fare qualcosa di nuovo credo che, come dirò poi, si possa però partire dal punto in cui certi percorsi si sono interrotti: certe strade già percorse potrebbero aggiornarsi ai linguaggi più attuali e offrire ancora margini ai fotografi. In caso contrario, ogni pretesa di creare qualcosa di nuovo in fotografia porta per forza all’aggiunta di elementi che, all’interno della cornice di cui parlavamo, possono risultare solo dei segni estranei qualora non siano caricati di precisi significati: risulterebbero senza senso.

In molta fotografia – va di moda definirla fashion e glamour – sembra che il valore sia determinato solo dalla quantità e qualità degli elementi introdotti (make-up, accessori, effetti di luce, bellezza del modello, allusioni erotiche, ecc.); ritengo che questo sia un atteggiamento manierista che in verità nasconde la mancanza di contenuti, un arricchimento retorico del linguaggio che maschera l’assenza di messaggio.

Nelle foto di paesaggio, prima di tutto un omaggio alla città e al territorio, dovrebbe prevalere unicamente lo stile documentario legato al luogo e al momento.