Strade bianche, così sono comunemente chiamate, sono le carrarecce che attraversano la pianura veneta e friulana e portano ormai solo ai campi coltivati; fino a cinquant’anni fa praticamente tutte le strade erano bianche, cioè non asfaltate, anche quelle che collegavano i paesi e le borgate. Bianche perché il fondo era costituito da una graniglia proveniente dalle cave di Caneva e di Sarone, un tipo di ghiaia calcarea e marnosa che appena stesa assumeva un colore ocra, ma che col tempo si separava in un fondo battuto, quasi argilloso, lastricato dai sassolini calcarei bianchi. Erano spesso affiancate da filari di alberi di platano, dure come il marmo e polverose d’estate; d’inverno invece, dove l’acqua stagnava e scioglieva il mastice marnoso, si formavano buche dalla profondità incerta, riempite con nuova graniglia solo a primavera, per cui entrarci con la ruota della bicicletta era una sfida alla sorte.
Per noi bambini erano le nostre strade nella prateria, ci si organizzava in gruppi, a turno, per essere indiani o cowboys e darci la caccia tra le campagne, coi nostri rifugi segreti tra le arnerade (i filari di cespugli) e le strategie di aggiramento. Non c’erano mai morti in queste battaglie, ma feriti sì e il sangue abbondava insieme alla pelle di gomiti e ginocchia lasciata sul selciato.
Ora di queste Strade Bianche ne sono rimaste poche, in numero minimo rispetto a quelle diventate grigie d’asfalto: alcune tra quelle rimaste non sono solo la testimonianza di un mondo contadino che si è evoluto e contaminato, sono anche relitti dell’antica centuriazione dell’agro concordiese e opitergino; a calcarle si percepisce l’affollamento delle vite che le hanno percorse.
Ma Strade Bianche è anche la metafora di un mondo bambino, dallo sguardo ingenuo su un intorno ancora largamente incontaminato in cui la frenesia del nuovo – la nuova casa, la nuova auto, la nuova televisione, la nuova cucina… – avrebbe di lì a poco fatto sparire tante testimonianze e, soprattutto, si sarebbe imposta con totale mancanza di rispetto per il paesaggio e la natura, punteggiando la campagna con infinite casette di cemento – ben presto rivelatesi umide e malsane – e piccoli capannoni di amianto a cui portare energia elettrica, acqua e asfalto.
Ho dovuto recuperare lo sguardo ingenuo e fanciullesco che avevo perduto per poter apprezzare i luoghi della mia infanzia e per potermi riconciliare con essi; certo è lo sguardo di chi torna e non di chi ci vive, ma chi è rimasto probabilmente non ha mai smesso di amarli: o forse conosce solo quelli.
E infine Strade Bianche è anche il titolo di immagini, ancora in costruzione, che mi sta consentendo attraverso l’esercizio dello sguardo e la pratica fotografica di riconciliarmi con la Pianura, col suo Paesaggio. Non c’è alcun filtro sentimentale e nostalgico per il passato perduto, neppure accusatorio o di denuncia per i deturpamenti causati dall’uomo. Queste foto sospendono qualsiasi giudizio sui singoli elementi e si concentrano unicamente sulla lettura del Paesaggio in cui elementi naturali e antropici si relazionano in strutture mai casuali, come in uno spartito in cui la Natura è il pentagramma e gli uomini incastrano note, armoniche o stonate che siano.
Per comprendere la struttura degli elementi antropici, sia artificiali che naturali, è necessario approcciarsi con rigore e sistema: le riprese in prospettiva centrale, albertiana – raramente in prospettiva accidentale, qualora le relazioni tra elementi lo avessero richiesto – e la linea di orizzonte ad altezza d’uomo, a metà del fotogramma, sono scelte linguistiche collaudate e appartenenti alla Fotografia di Paesaggio, soprattutto da Ghirri in poi, amate da fotografi anglosassoni che cercano in questo modo di evitare di cadere nel gusto pittorialista.
La definizione di Paesaggio nella fotografia, e nelle arti figurative, credo sia abbastanza ampia. La differenza tra panorama, veduta e paesaggio è stata ben chiarita da Gianfranco Ellero che ha analizzato i caratteri della Foto di Paesaggio in Friuli e nella Destra Tagliamento: dopo aver permesso a fotografi come i Borghesan, Elio e ora anche Stefano Ciol, e lo stesso Zannier di essere conosciuti universalmente, questa tradizione si è interrotta forse a causa della difesa dei piccoli orticelli, in un terreno, quello dell’immagine fotografica, che si avviava sempre più verso la globalizzazione.
La fotografia di paesaggio forse più di tutte offre una cornice (Friday), una soglia (Ghirri), all’interno della quale si esaurisce la rappresentazione; si corre sempre il rischio di cadere nel pittoresco, nella ricerca del vedutismo d’effetto; la fascinazione per la visione sintetica dei Macchiaioli, più che a quella analitica degli Impressionisti, è sempre dietro l’angolo e, negli stereotipi attribuiti alla fotografia, si carica di pulsioni emozionali e romantiche. Ammetto che sia difficile rinunciare a certe condizioni di luce sul paesaggio, anzi si dovrebbero cercare, o cogliere, anche se ciò comporta di dover accettare il rischio di cadere nello stereotipo della foto cartolina. Sta più alla cultura del fotografo, credo, che alla sua bravura tecnica, la capacità di starne fuori.
Così come bisogna rinunciare anche alla pretesa di fare qualcosa di nuovo; credo che in fotografia si sia ormai sperimentato tutto quanto concesso dai limiti della registrazione meccanica dello sguardo.
Nel rinunciare a fare qualcosa di nuovo credo si possa partire dal punto in cui certi percorsi sono stati interrotti: certe strade già percorse potrebbero aggiornarsi ai linguaggi più attuali e offrire ancora margini ai fotografi. In caso contrario, ogni pretesa di creare qualcosa di nuovo in fotografia porta per forza all’aggiunta di elementi che, all’interno della cornice di cui parlavamo, possono risultare solo dei segni estranei qualora non siano caricati di precisi significati: risulterebbero senza senso. Rincorrere situazioni che possano aggiungere qualità che il comune senso di osservazione classificherebbe dentro il giudizio di bellezza ritengo sia un atteggiamento manierista che nasconde la mancanza di contenuti, un arricchimento retorico del linguaggio che maschera l’assenza di messaggio.
Rinunciare a una bella foto vale quanto scattare una buona foto.
Nelle foto di paesaggio, prima di tutto un omaggio al territorio, dovrebbe prevalere unicamente l’aspetto documentale – lo stile documentario di Walker Evans – legato al luogo e al momento.
Anche la tecnica di ripresa, analogica, trova riferimenti in alcuni autori contemporanei di scuola anglosassone – Michael Kenna e Paul Hart in primis – ma in questo caso la scelta è stata determinata dalle modalità di sedimentazione delle immagini nella memoria; la memoria è analogica scrivevo sopra, il ricordo ha i tempi della pellicola: forse sarà l’età, ma ricordo perfettamente alcune foto scattate trent’anni fa – persino quelle del primo rullino – ma delle migliaia di foto scattate ogni anno in digitale – come fotogiornalista – non ne ricordo una. In ogni caso quel viaggio a ritroso nel tempo, terapeutico, ha chiesto di sovrapporre a dei ricordi su pellicola altri ricordi sullo stesso supporto, meditati e nuovamente osservati anche prima di essere giudicati meritevoli di finire sotto l’ingranditore. Con la ripresa analogica ho ottimizzato l’efficienza delle immagini, ho evitato di scattare fotografie che sapevo benissimo sarebbero state inutili; ogni inquadratura, ogni Fotografia, ha richiesto un solo scatto, a volte non più di due. Non per ragioni di economia di fotogrammi, ma per non consentire alle visioni superflue di soppiantare quelle utili.
Mentre per una serie fotografia correlata ho deciso di utilizzare il colore su pellicola medio formato, in Strade Bianche è sviluppato in Bianconero su formato 35mm, restituendo alla mia OM1 il diritto di scattare quelle foto di cui era stata privata in passato.
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