COME VINCERE AI CONCORSI FOTOGRAFICI

Un amico ti ha detto che fai belle foto e ti arriva qualche like anche da persone che non conosci? Forse stai pensando di partecipare a un concorso fotografico? Allora segui attentamente le mie istruzioni se vuoi puntare a vincere, a un premio speciale, a una segnalazione o anche semplicemente per avere la certezza di essere ammesso.

I concorsi di solito sono banditi dai foto club, quei gruppi di fotoamatori che si sono organizzati per fare le uscite fotografiche tutti insieme con pranzo finale in agriturismo, per organizzare le serate con videoproiettore in cui ci si fa i complimenti l’un l’altro, per allestire la mostra annuale dei soci in biblioteca con intervento dell’assessore uscente e in cui si discute dell’ultima mirrorless che se non hai quella le foto non vengono belle.

Con pochi colpi di Photoshop una normale immagine turistica può diventare una foto d’effetto

Per essere certo della serietà del concorso, conviene partecipare a quelli che godono del patrocinio FIAF e in cui i giurati, i cui nomi risulteranno perlopiù sconosciuti a molti, siano carichi di riconoscimenti e medaglie al valore (tipo AFI, BFI, AFIAP, EFIAP) di cui si presume che quella F nell’acronimo stia per Fotografia.

Chiarito questo particolare fondamentale (beh… se non ne capiscono di fotografia loro che hanno tutte quelle F nel curriculum…) puoi pagare la tassa di iscrizione – pensavi che fosse gratuito? – puoi decidere le foto da scattare (se non le hai ancora fatte) o da spedire in forma digitale a buona risoluzione, perché poi dovranno farci un catalogo in PDF col tuo nome sotto la foto selezionata o premiata, il che ti sembrerà sempre qualcosa di più prestigioso che avere una foto coi like sul tuo profilo Facebook.

Se decidi di partecipare è il momento di seguire questo VADEMECUM:

  • Fotografa un bambino povero e sporco: non serve sia pachistano, va bene anche ROM; ancora meglio se è una bambina *;
  • Converti la foto in bianco e nero (se concorri nella sezione BN) oppure satura al 100% uno tra colori primari – preferibilmente il rosso – se concorri nella sezione CL (che sta per “colore”);
  • Usa un filtro HDR; se non basta usalo un’altra volta oppure seleziona la porzione di cielo e fallo diventare scuro e minaccioso come quello di un ciclone caraibico;
  • Sbianca gli occhi della bambina, devono luccicare bene;
  • Porta al nero tutte le zone in ombra e al bianco tutte quelle nelle luci alte, in modo da nascondere particolari i indesiderati e ignorare le pecche dell’esposizione;
  • Metti un titolo d’effetto, purché sia rigorosamente scritto in inglese.
Non cuccede solo in Italia: la foto vincitrice del premio HIPA dal titolo… HOPE

* Se il tema del concorso ti obbliga al paesaggio, dovrai sostituire il soggetto con una foto delle Crete senesi presa all’alba, oppure con una veduta della Val d’Orcia. Se non le hai, vanno benissimo anche i riflessi sull’acqua delle case di Burano o le maschere veneziane, che quelle sicuramente le hai fatte.

Se non hai usato l’HDR hai poche speranze di essere selezionato, sappilo.
Fine dello scherzo.

 

Ora so che mi attirerò più di qualche antipatia, ma credo che questi concorsi, di alcuni dei quali mi sono preso la briga di visionare i risultati, facciano solo male alla Fotografia e siano la peggior pubblicità per la FIAF (la federazione delle associazioni fotografiche) che investe un notevole sforzo economico e di energie intellettuali per alzare il livello culturale dei club e che dall’altra concede il patrocinio a questi concorsi che sono – in gran parte dei casi – una sagra della banalità.

Conosco l’impegno culturale di alcuni dei redattori della rivista FotoIt, organo della FIAF, e la caratura di alcuni membri del comitato scientifico; eppure il livello dei concorsi patrocinati dallo stesso organo, viaggia su un binario parallelo, se non opposto, dando della Fotografia una immagine mediocre, stereotipata e livellata su un livello di competenza infimo. Mi chiedo se questi giurati che sfoggiano fior di titoli con la F nell’acronimo siano mai stati al MIA di Milano, ad Arles, alla Photographers Gallery di Londra ecc, se abbiano una minima idea di cosa sia la Fotografia al di fuori di Photoshop, se abbiano mai letto qualcosa, non dico Barthes o Vaccari, che non siano le biografie di McCurry e Salgado in calce a qualche monografia di edizione economica.

E non si dica che la fotografia è uno strumento di espressione “popolare” se in questi club viene “insegnato” ai soci che devono spendere almeno tremila euro per avere la possibilità di scattare una “bella” foto perché altrimenti la “propensione autoriale” non può emergere; se poi il socio vuole che le sue foto ambiscano a riconoscimenti, allora deve assolutamente partecipare al tour fotografico in Etiopia, in India o in Nepal, organizzato dallo stesso club fotografico che poi lo risarcirà premiando la foto della bambina con gli occhi sbiancati e lucidi.

È sufficiente aprire Google per trovare una infinità di questi tour che propongono i safari fotografici della disperazione; tant’è che molte popolazioni indigene si sono prontamente adeguate – come faceva già notare l’antropologo Lévy-Strauss in tempi non sospetti – a questa nuova forma di turismo colonialista e vampiresco, mettendosi in posa bardati da straccioni all’arrivo dei pulmini di questi esseri malati di voyerismo e muniti di attrezzatura fotografica sofisticata.

Il recente caso della foto vincitrice del Premio HIPA, il cui premio era addirittura di 120.000 dollari, ha fatto scalpore… eppure non avrebbe dovuto minimamente stupire; la foto – identica a decine di altre pose di altri partecipanti a un tour per i quali la madre africana con un bimbo appeso al collo si era preparata – è stata squalificata e il premio annullato.

Il “set”, la foto vincitrice del premio HIPA 3 il fotografo vincitore

A questi pseudo fotografi viene venduto un prodotto che dia loro la sensazione di aver fatto un “bel reportage” e questo prodotto viene risarcito coi premi elargiti da giurati con tante F nel curriculum.

 

Trovo che questo modo di interpretare la fotografia sia squallido, oltre che diseducativo e dannoso al buon nome della Fotografia; è come se a una scuola di pianoforte venissero insegnate le prime note di “Per Elisa” con la mano destra per dare l’illusione di essere come Beethoven; qui ti danno in pasto un volto di (spesso finto) diseredato per farti sentire come McCurry, ammesso che tale nome possa ancora essere preso ad esempio.

E l’industria fotografica ed editoriale su questa propagazione di ignoranza ci campa: solo se hai una macchina col bollino rosso farai buon reportage, solo se sai usare quelle funzioni di PS farai una efficace postproduzione e avrai una foto di sicuro effetto.

Tutorial da una rivista per fotoamatori

Invece questi club dovrebbero insegnare che proprio questo tipo di immagini, questi tour della tristezza che trasbordano di miserabile egoismo vanitoso, oltre ad essere immorali e lontanissimi dalla Buona Fotografia, sono anche illegali.

Se io, Antonio Ros, fotografo iscritto all’Albo dei Giornalisti – e quindi con uno statuto di fotografo che mi consente con pieno diritto di realizzare dei reportages anche a sfondo sociale e umanitario – realizzassi una fotografia del genere, probabilmente violerei almeno una mezza dozzina di norme deontologiche, prima fra tutte la Carta di Treviso, che farebbero di me un infame passibile della revoca del tesserino da giornalista.

 

Alimentare il narcisismo diffonde l’ignoranza, la fase politica che attraversiamo ne è una testimonianza; ma nello specifico nuoce alla Fotografia. La colpa non è del digitale, ma del cattivo esempio che ne fa proprio chi istituzionalmente dovrebbe essere chiamato a tutelarne il patrimonio culturale e a diffonderne le pratiche corrette.

Finite di incensare i falsi reportage e smettete di premiare lo squallido voyerismo sul dolore umano.