GOTICA di DANIELE INDRIGO Mostra a Sesto al Reghena

Testo integrale della presentazione della mostra fotografica di Daniele Indrigo Gotica, contrappunti di architettura nel salone abbaziale di Santa Maria in Sylvis di Sesto al Règhena; 23 settembre 2023.

Locandina della mostra fotografica di Daniele Indrigo
CONTRAPPUNTI

Qual è il soggetto di queste fotografie di Daniele Indrigo? In generale: qual è il soggetto in ogni fotografia, allora, ci verrebbe da chiedere.

Che la Fotografia appartenga all’area dei linguaggi, e non più semplicemente al campo delle forme e degli stili – l’aspetto che queste forme assumono in tempi e contesti diversi – è ormai cosa digerita dai filosofi dell’immagine, i semiologi, a partire da Peirce. Ma la fotografia è sempre sfuggita a una chiara definizione per quel suo maledetto rapporto diretto con la Realtà reso possibile dalla macchina; questa dipendenza da uno strumento tecnologico, che dispone di una sua insita autonomia – l’Inconscio tecnologico ben spiegato da Vaccari –, fa della Fotografia la cenerentola tra le arti visive, in una società dell’immagine che invece la dovrebbe considerare regina.

Allestimento della mostra nel salone abbaziale di Santa Maria in Sylvis

Lo stesso Barthes, nei suoi ultimi studi si rese conto che non bastava definire l’atto fotografico come la certificazione di qualcosa che è stato (“ça à été”), ma che bisognava considerare la sovranità assoluta del soggetto osservatore sull’immagine osservata, sul suo contenuto, sulle intenzioni del suo autore; ne consegue che il paradigma iniziale “ciò è stato” andrebbe rivisto con “io sono stato” o meglio “io (soggetto) ho visto/fotografato (predicato verbale, operazione eseguita dal mezzo meccanico) ciò (complemento)”; in definitiva, ciò che sta dentro una immagine fotografica non è il soggetto, ma il complemento.

Daniele Indrigo è il soggetto di queste immagini; ogni sua scelta – tecnica, compositiva, di editing – parla di egli stesso; e tutto ciò che ora abbiamo scoperto essere complemento è connotativo dell’Autore in modo sorprendentemente, e spesso inconsapevolmente, coerente.

«La fotografia contribuisce in modo significativo al nostro senso di conoscenza, percezione ed esperienza, e a trasformare il modo di porci in relazione con la storia e, per estensione, con il senso di noi stessi» ha scritto recentemente Liz Wells in una sua ricerca sulla Fotografia di Paesaggio (Land Matters, 2011) quasi a confermare la presenza soggettiva del fotografo che, nell’esperienza dell’atto fotografico, propone un percorso di conoscenza all’interno di sé stesso: Io, Daniele Indrigo, sono stato lì e ho visto/fotografato ciò: perché ciò parla di me.

Daniele Indrigo spiega la sua ricerca sull’architettura gotica

Il ciò sono le architetture di alcune grandi cattedrali gotiche che hanno esaltato, insieme all’Arte Cortese, la ripresa culturale e figurativa seguita alla crisi altomedievale; quello che in gergo viene definito Gotico Internazionale in queste cattedrali si esprime con le forme del Gotico Fiorito, mai giunto con espressioni formali così ardite in Italia (cfr. Gotico Temperato dei Francescani), forme a volte allusive ma più spesso metaforiche e simboliche, legate tra loro da contrappunti come in una partitura musicale (non a caso le strutture compositive delle campate sono definite partiti architettonici), come li definisce Daniele, anche  e profondo conoscitore della musica.

Nel percorrere le navate di questi edifici monumentali sembra quasi di immergersi nelle atmosfere di un salmo Gregoriano, in cui il ritmo è scandito su un tetragramma ideale dall’incedere più che dalla suddivisione in battute. E l’autore ci presenta le fotografie in formato rettangolare, coi lati rigorosamente in rapporto 2:3. Questa scelta non è solo determinata dal formato del sensore fotografico, ma assume una precisa valenza linguistica: il rapporto 2:3, nella struttura musicale armonica, equivale a un accordo di quinta, C-G secondo la notazione internazionale, o Do-Sol come usiamo dire tradizionalmente, che sono le note portanti in un canto gregoriano.

Pubblico all’inaugurazione della mostra

Persino la scelta, dovuta apparentemente a motivi di opportunità tecnica – come spiega l’autore – di fotografare esclusivamente gli interni di questi luoghi acquista un significato coerente nel progetto. Capitelli, orditure, nervature che definiscono altre geometrie, persino i trafori delle grandi finestre istoriate, ci parlano simbolicamente di una Natura Madre rigogliosa e fiorita, circoscritta in un Universo finito e perfetto, retto dalle regole di quella geometria medievale densa di valori armonici di derivazione neoplatonica, come nei chiostri dei monasteri benedettini e cistercensi: luoghi quasi segreti questi, abbondanti di erbe aromatiche e officinali.

Ancora simboli e suggestioni, come nella fioritura dei capitelli e delle nervature che continuano la verticalità di colonne che rimandano ai palmeti del gotico normanno, e ci conducono stavolta alla mistica immagine medievale dell’Hortus Conclusus, Eden in terra, teatro della Annunciazione e perciò metaforico della verginità di Maria, Madre di tutti noi. E non è casuale che siamo qui, In Sylvis, a parlare ancora della Madre Celeste alla quale questo luogo è dedicato, così come alla Nostra Signora sono dedicate molte di queste cattedrali.

Armonia geometrica e simbolismo sono intimamente compresi da Daniele Indrigo, che nel rigore della composizione e nella sapiente trattazione della Luce, altro elemento mistico di questi luoghi e ragione d’essere della Fotografia, da misteriosi appaiono compresi e svelati a noi grazie alla sapiente padronanza del bianconero, in cui è maestro: «il fotografo d’arte è esso stesso un artista» scriveva Ando Gilardi, il più provocatorio tra i critici fotografici di fine Novecento, e lo diceva a ragione, oltre che per esperienza diratta di fotografo: fotografare l’arte richiede una profonda conoscenza dell’arte stessa, intesa – dicevamo – come linguaggio; come un novello Viollet Le-Duc, padre del restauro moderno e autore della rinascita di molti di questi monumenti, Daniele Indrigo, armato di macchina fotografica, diventa interprete ed esso stesso artista e, nel farlo, ciò che sembra complesso ci viene portato all’essenziale, ci mostra nulla più di quanto serva alla sua e, qui in mostra, alla nostra comprensione: Io sono ciò che ho visto.