CONFINI – Quales aëriae liquentia flumina circum

La storia locale in passato cercava le proprie radici nel mito, e quel liquentia flumina dell’Eneide, estrapolato dal contesto del brano, rappresentava l’occasione ideale trovare l’origine del nome Livenza, il fiume che dalle sue tre sorgenti solca la pianura a nordest, dalle Prealpi al mare. L’aspetto naturalistico del territorio attraversato e la salubrità delle arie, motivo per cui alcune zone si sono meritate il titolo di Giardino della Serenissima, trovavano così in Virgilio un cantore ideale.

Fino al Boom economico del secondo dopoguerra.

Il Modello Nordest, che ha visto i mezzadri trasformarsi in operai e i piccoli proprietari in artigiani, in questi comuni dell’Alto Livenza ha preso la definizione di Distetto del Mobile, territorio che ha subito trasformazioni spontanee e incontrollate dove la polvere di legno e l’odore acre delle vernici, nei primi anni Sessanta, hanno smentito la fama che si faceva risalire ai tempi di Enea; e dove, con la crisi recente di quel modello economico, ora rimangono ferite aperte. Anche la ferita è un confine tra due lembi di pelle.

Pannello manifesto con stampa a contatto dei negativi 4″x5″ selezionati

Noi siamo soliti pensare al confine come una linea di separazione netta; probabilmente ciò deriva dalla nostra abitudine a osservare una mappa nella sua redazione politica. In genere questo confine è un segno fisico che coincide con un crinale montuoso o con un fiume: ma il crinale ha due versanti, e il fiume due sponde. Il confine perciò è sempre una zona di contaminazione, e per questo motivo oggetto di contese.

La stessa parola che lo indica, con-fine, manifesta implicitamente una forma di ibridazione che non troviamo, ad esempio, nel termine limite generalmente considerato sinonimo. Il Friuli è “terra di confine”, si dice, per il suo essere adiacente a regioni di cultura e lingua diverse – germanica e slava – per intenderci; ma anche Pordenone, dove ci troviamo, è un’area di confine tra paesi di cultura e tradizione friulana e quelli di usanze e parlata veneta (differenza che si nota anche all’interno dello stesso nostro comune, tra le frazioni a nord e a sud). Forse tutta la nostra Penisola è area di confini, di specialità da difendere tra tanti campanili.

Penso perciò al con-fine come una zona ibrida, con-divisa ma anche con-tesa, tra spinte a volte parallele e a volte opposte, non necessariamente demarcate da una linea, da un limite. È un concetto, quello di confine, che non riguarda unicamente la geografia, è principalmente un pensiero che coinvolge aspetti antropologici e sociali; persino personali e intimi, psicologici, quando pensiamo al nostro corpo o al trascorre dei nostri anni, alla descrizione della nostra età: qual è il confine tra gioventù e vecchiaia?
Qualunque sia il tema del nostro lavoro fotografico intorno a questo concetto, tutti questi aspetti – geografico, socio-antropologico, psicologico – entrano in gioco, sebbene con diverso peso e con diverse forme.

Gaiarine (TV)

PAESAGGIO TRA CONFINI – CONFINE TRA PAESAGGI

Il Paesaggio: è genere fotografico tra i più difficili e controversi, spesso confuso con la veduta e il panorama (G. Ellero, I. Zannier); il Paesaggio è principalmente una proiezione interiore («Sempre caro mi fu quest’ermo colle») e il contesto in cui si svolge la narrazione («Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi…»); il carattere del paesaggio è pertanto di natura letteraria, e in fotografia, così come in letteratura, si è spesso riconosciuto in uno stile, dal romantico/pittorialista al documentario/topografico, ma sono del parere che non debba esistere, anche qui, una separazione netta, così come sono convinto che attribuire uno stile a una fotografia sia una limitazione: una fotografia può sembrare documentaria, ma nascere da un vissuto personale romantico.
Vorrei una fotografia di paesaggio che possa essere sia documentaria che romantica… se non è un con-fine con-taminato e con-diviso questo…

Come un altro progetto che coltivo da anni (“Strade bianche”), anche questo che intendo iniziare grazie allo stimolo offerto dal LAB di CULT 146, parte dalla mio passato; il pensiero corre alla mia adolescenza, al desiderio di fuggire da un contesto agrario dalle atmosfere immutabili, con le sue brume e i suoi rituali contadini, per approdare in una città (seppur piccola come la neonata sede di provincia) viva e in evoluzione anche culturale… salvo poi rendermi conto, alla scomparsa dei miei genitori, che proprio in quei giochi di terra, in quei paesaggi d’infanzia tra i campi e le strade sterrate, erano piantate – sono narrate – le mie radici.

Ho però fatto in tempo a vedere le modificazioni di quel paesaggio, da agricolo a industriale, senza che ci fosse una distinzione di ruolo anche tra le persone: l’operaio col campetto da coltivare, tanto caro al mito del Nordest, lascia la vecchia casa colonica – in qualche caso ancora un casone di mattoni e paglia – e ci costruisce accanto in economia, nel piccolo terreno di proprietà, la moderna casetta, di quattro stanze col bagno e l’acqua corrente, che presto si riempirà di umidità e muffe; dalla stalla scompare la mucca per far posto all’automobile o a al piccolo laboratorio artigianale in cui la moglie, casalinga, può lavorare in nero come terzista.

Ecco in sintesi il tema: rispetto alla città, in questo piccolo mondo di periferia, non c’è la periferia.

Brugnera (PN)

Se le periferie delle grandi città sono state ben documentate da alcuni grandi fotografi, le periferie della periferia non hanno avuto una narrazione.

L’avanzare delle grandi città nella distesa della campagna sono entrate ormai nel nostro immaginario (nel nostro bagaglio di immagini) attraverso il profilo dei palazzoni sullo sfondo di casolari, attraverso la sagoma di fabbriche e ciminiere che incombono su animali al pascolo: le periferie delle città hanno avuto una loro rappresentazione ben riuscita grazie alla Fotografia. Ma dove non esisteva la città, nei paesi in cui il centro era costituito solo dalla chiesa e, al massimo, dal piccolo negozio di generi alimentari (che fungeva da bar, telefono pubblico, tabaccaio ecc.) la periferia si è formata e si è sviluppata in centro.

A distanza di mezzo secolo dal boom economico, questo sistema economico, e il paesaggio che ne è conseguito, è andato in crisi: ciò che era moderno è già vecchio; ma ancora non abbastanza per generare una nuova strutturazione del territorio e del suo paesaggio.

Trovo che i paesi posti a cavallo del fiume Livenza, con-fine tra due regioni (Veneto e Friuli), luoghi in cui sono nato e vissuto fino al periodo dell’università, possano essere il contesto di questa narrazione socioeconomica che conosciamo con la definizione Italia del Nordest, di cui esistono diverse idee stereotipate, ma di questo paesaggio ibrido e contaminato, nella pluralità delle accezioni del termine, non c’è ancora, forse, sufficiente narrazione.

Attraversare queste campagne disseminate di capannoni artigianali ormai in disuso e di villette del boom ormai umide, attraversare questi paesi in cui le case di mattoni e sassi pur diroccate resistono più delle officine, ispira l’idea di un mondo in cui prevale il senso di emarginazione, cioè di un mondo in cui il confine tra centro e periferia, tra passato e presente, tra storia e attualità è ancora indefinito; sospeso. Emarginazione: paesaggio ex margine, paesaggio senza confini.

Brugnera (PN)